A causa di un furto di un tablet che utilizzavo principalmente come hub per gestire il lavoro durante le lunghe trasferte, ho deciso di rispolverare un vecchio iPad 3, scoprendo, mio malgrado, che un prodotto informatico basato su una tecnologia un po’ vecchiotta è oggi inutilizzabile: in altri termini non è possibile scaricare alcuna applicazione compatibile all’interno dello store nel caso in cui si utilizzi un nuovo account.
In realtà ancora oggi il prodotto, da un punto di vista hardware, seppure datato, può essere considerato un tablet entry level – eppure non c’è stato modo di poterlo utilizzare a causa della incompatibilità con le applicazioni.
Ebbene tale vicenda sarebbe oggi chiamata dai Geek “obsolescenza programmata”, una definizione, ormai divenuta di uso comune, che identifica quel processo dei grandi produttori di elettrodomestici e di devices informatici, che impedisce un uso prolungato del proprio bene di consumo, permettendo al mercato di avere sempre una domanda stabile e crescente del medesimo bene.
Le pratiche commerciali mirate a far invecchiare anzitempo prodotti di recente costruzione sono tornate alla ribalta della cronaca in seguito alle sanzioni comminate proprio a Apple, ma non sono certo una cosa recente.
Ricostruiamone l’origine prima di arrivare ai casi più recenti.
La cospirazione delle lampadine
Eppure, il più eclatante caso di obsolescenza programmata non è quello degli smartphone, come si potrebbe immaginare, bensì quello delle lampadine.
Il cartello Phoebus (in inglese Phoebus cartel «cartello Febo») fu un famoso episodio nel quale i maggiori produttori di lampadine nel 1924 costituirono un “trust”, ovvero un cartello.
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Un cartello economico è un patto tra più operatori di un settore che mira a limitare la concorrenza di un mercato, fissa alcuni parametri, quali prezzo e condizioni di vendita, determina alcuni target produttivi e stabilisce una logistica distributiva che garantisca un equo guadagno tra i partecipanti all’accordo.
Ebbene nel lontano 1924 diverse società concordarono dei parametri per il controllo e la vendita di lampadine. Il nome Febo deriva dalla società svizzera registrata nel 1916 con il nome di la Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage.
La costituzione di tale cartello è considerato il primo grande passo nella moderna storia dell’economia in relazione alla obsolescenza pianificata in quanto i partecipanti decisero di pattuire la vita media di una lampadina permettendo così un aumento del numero dei prodotti venduti.
I membri del cartello erano la General Electric Company, la Tungsram, la Compagnie di Lampes, la OSRAM e la Philips i quali decisero che una lampadina dovesse avere una durata media di 1000 h.
Prima di tale cartello la vita media di un lampadina era decisamente superiore: è famoso il caso della lampadina che si trova attualmente all’interno della caserma dei Vigili del Fuoco di Livermore, in California, che è accesa da ben 120 anni e fu addirittura nomenclata come Centennial Light.
Il cartello si sciolse alla fine degli anni ’30 e in seguito tale vicenda arrivò addirittura innanzi alla Corte Suprema Americana che condannò la General Electric ad un salato risarcimento nella causa civile n. 1364 iniziata nel 1942 e conclusa nel 1953.
L’obsolescenza programmata nei devices elettronici
Un esempio fastidioso di obsolescenza pianificata riguarda quello delle cartucce delle stampanti, nelle quali è ormai presente un chip che determina il termine finale della cartuccia anche laddove sia ancora presente inchiostro.
Ebbene, l’esempio è ancora più eclatante nelle cartucce incluse all’interno delle scatole della stampante che hanno una vita media decisamente inferiore a quelle acquistate successivamente, in quanto il modello di business è propriamente basato sul guadagno derivante dai prodotti accessori, piuttosto che dall’utile marginale del singolo device.
Eppure, quasi tutti gli elettrodomestici si basano sui medesimi principi, così come per esempio le automobili acquistate possiedono un libretto di manutenzione che stabilisce la vita media dei prodotti consumabili, che a volte esula dalla reale necessità di sostituzione meccanica di un determinato componente.
Il caso Apple: le sanzioni dell’Agcm
Nel gennaio del 2018 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inteso iniziare una procedura di infrazione nei confronti della società Apple per le seguenti ragioni:
“A) la proposta insistente, ai consumatori in possesso di iPhone 6/6plus/6s/6splus, di procedere ad installare il sistema operativo iOS 10 e i successivi aggiornamenti (tra cui iOS 10.2.1) le cui caratteristiche e impatto sulle prestazioni degli smartphone stessi sono state descritte in maniera omissiva ed ingannevole, senza offrire (se non in misura limitata o tardiva) alcun mezzo di ripristino dell’originaria funzionalità degli apparecchi in caso di sperimentata diminuzione delle prestazioni a seguito dell’aggiornamento. In particolare, secondo informazioni acquisite ai fini dell’applicazione del Codice del Consumo e le segnalazioni di alcuni consumatori 5 pervenute nel dicembre 2017, Apple, in occasione della release del sistema iOS 10.1, non ha informato i clienti dei possibili inconvenienti di funzionamento che il nuovo SO avrebbe potuto provocare attesa la configurazione hardware degli smartphone in cui sarebbe stato installato (ed in particolare del grado di usura della batteria) in determinate condizioni d’uso comune. Inoltre, in occasione della release del sistema iOS 10.2.1, Apple ha omesso di informare preliminarmente i consumatori, in maniera chiara e immediata, che per evitare alcuni rilevanti inconvenienti (quali l’improvviso spegnimento/riaccensione del proprio iPhone) tale release includeva un sistema di gestione delle prestazioni dello smartphone che avrebbe opportunamente rallentato tali prestazioni per evitare lo spegnimento inatteso – sistema mantenuto anche in successivi aggiornamenti di iOS;
B) la mancata informazione sulle caratteristiche della batteria e specificamente in merito alle condizioni per mantenere un adeguato livello di prestazioni degli iPhone, alla sua durata e alle modalità per la sua corretta gestione al fine di rallentarne la naturale usura e, quindi, in merito alla sostituzione della medesima batteria.”
A seguito di una lunga istruttoria nella quale Apple si è difesa sostenendo fondamentalmente come (così si legge all’interno del provvedimento dell’AGCM):
“ […] Non vi sarebbero prove dirette riguardo una strategia di obsolescenza programmata. Al contrario, il piano di sostituzione annuale di Apple – rispondente ad una sua libera scelta commerciale e attuato principalmente attraverso appositi accordi con gli operatori telefonici – mirerebbe unicamente ad allettare la clientela con nuovi modelli e non vi sarebbe alcuna coartazione della volontà dei consumatori che scelgono di optare per la permuta annuale del proprio dispositivo utilizzato dalle aziende produttrici di stampanti si basa sul guadagno derivante dalle cartucce.
Apple evidenzia inoltre che, nel periodo dal giugno 2016 al gennaio 2018, il graduale calo del numero di sostituzioni gratuite dei modelli interessati – cui peraltro non si accompagna un aumento di quelle a pagamento – sarebbe collegato al progressivo esaurimento della garanzia. Inoltre, il grande numero di sostituzioni gratuite nel periodo considerato testimonierebbe la volontà di Apple di favorire l’accesso degli utenti a un dispositivo nuovo, anche oltre la durata della garanzia.
Apple sottolinea che le contestazioni formulate in esito all’istruttoria avrebbero dovuto essere suffragate da un’analisi economica volta a esaminare la posizione dei professionisti nel mercato rilevante, per rintracciare un’eventuale posizione dominante. Anche la conservazione del valore degli iPhone nel mercato dei prodotti di seconda mano dimostrerebbe la mancanza di prove circa l’esistenza di una strategia di obsolescenza
programmata.”
Malgrado le difese svolte l’AGCM ha riscontrato le violazioni in merito alle pratiche commerciali secondo tali conclusioni:
“ […] Da quanto affermato in precedenza emerge che ai consumatori che avevano acquistato iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus è stato insistentemente proposto l’aggiornamento del sistema operativo iOS 10 e del successivo aggiornamento 10.2.1, senza che fossero adeguatamente informati degli inconvenienti che tali installazioni avrebbe potuto comportare e senza provvedere, se non tardivamente ed in maniera limitata, a rimediare a tali inconvenienti. Apple ha potuto indurre i consumatori ad accettare tali aggiornamenti anche grazie all’asimmetria informativa esistente con essi, che porta tali consumatori a essere costretti a riporre la loro fiducia in quanto affermato da Apple sulla utilità e bontà di tali aggiornamenti. 162. Per i motivi sopra esposti, la pratica commerciale in esame risulta scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, 22 e 24 del Codice del Consumo, in quanto Apple ha sviluppato e suggerito aggiornamenti firmware iOS 10 e 10.1.2 per gli iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus già acquistati dai consumatori che ne modificano le caratteristiche funzionali già ampiamente pubblicizzate e ne riducono in maniera sensibile le prestazioni, nonché ha indotto in errore i consumatori nella decisione di procedere all’installazione di tali aggiornamenti. Infine, sotto altro profilo, il professionista ha indebitamente condizionato i consumatori, da un lato, inducendoli ad aggiornare il firmware mediante l’insistente richiesta di procedere ad effettuare il download e l’installazione degli aggiornamenti, dall’altro, non prestando un’adeguata assistenza ai consumatori per ripristinare la funzionalità preesistente dei loro apparecchi, in tal modo accelerando il processo di sostituzione di tali apparecchi con nuovi modelli di iPhone.
La seconda pratica commerciale consiste nella mancata ed insufficiente informazione su alcune caratteristiche essenziali delle batterie, quali la vita media e deteriorabilità delle batterie e la loro correlazione con le prestazioni degli iPhone, specificamente con riferimento alle batterie degli iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus. Essa riguarda inoltre la mancata indicazione di corrette procedure per verificare e/o mantenere un adeguato livello di prestazioni della batteria e quindi dei propri dispositivi cellulari, della necessità di procedere alla sostituzione della stessa in relazione alle modalità di utilizzo e alle eventuali maggiori richieste degli aggiornamenti iOS. Tali informazioni sono state fornite dal professionista solo a partire dagli ultimi giorni di dicembre 2017.”
Per le ragioni sopra espresse l’Agcm ha multato la Apple per 5 milioni di euro per ogni infrazione contestata, ai sensi dell’art. 27 comma 9 del Codice del Consumo, applicando la pena massima edittale prevista per un importo totale di € 10.000.000,00.
Il Tar del Lazio
Apple ha deciso di impugnare il provvedimento dell’Agcm innanzi al competente Tribunale Amministrativo del Lazio – Roma, seppur dopo aver pagato la sanzione, per le ragioni che il TAR nel provvedimento n. 5736 del 29.05.2020 ha così riassunto:
“[…] Con una prima e unica sostanziale censura la parte ricorrente lamenta, in estrema sintesi, il difetto di istruttoria sui vari profili tecnici sulla base dei quali l’AGCM ha ritenuto che la pratica sub A) configuri una pratica scorretta (motivi I, II, e III). Secondo Apple l’Autorità sarebbe giunta a conclusioni erronee, in assenza di prove tecniche, sul peggioramento delle performance dei dispositivi Apple e sul presunto danno arrecato dal download di IOS 10. L’Autorità, al contempo, avrebbe omesso di considerare spiegazioni alternative più plausibili e fondate su dati tecnico-scientifici, presentati nel corso dell’istruttoria da parte delle ricorrenti.
Con un secondo gruppo di motivi si sostiene che la complessiva condotta di Apple non integrerebbe gli estremi dell’aggressività e della scorrettezza, anche in considerazione dei limitati effetti che avrebbe prodotto e della durata della condotta, che sarebbe stata erroneamente stimata dall’Autorità (motivi IV, V, VI, VII, VIII e IX).
Con l’ultimo motivo, riferito alla pratica sub B), la parte ricorrente contesta di essere stata lacunosa rispetto all’informativa sulla durata della batteria affermando che le informazioni relative al normale invecchiamento delle batterie e alla conseguente necessità di sostituirle sarebbero inidonee a integrare una pratica commerciale omissiva. In ogni caso, lamenta che l’AGCM avrebbe introdotto nel provvedimento conclusivo condotte mai considerate prima, in violazione del principio del contraddittorio (motivo X).”
All’interno del presente articolo si eliminano le censure effettuate con motivi aggiunti, di natura formale, che nulla arricchiscono rispetto al focus dell’approfondimento.
Il Tar all’esito del giudizio ad ogni modo ha confermato la sanzione dell’Agcm specificando quanto segue: “le pratiche commerciali aggressive non sono necessariamente connotate dal ricorso alla violenza fisica o verbale, ma sono certamente accomunate dal fatto che il consumatore viene a trovarsi in situazione di “stress” che lo condiziona nel decidere e tale “stress” può essere determinato sia da condotte del professionista ripetute e irriguardose della volontà del cliente, sia dalla esistenza di vincoli contrattuali percepiti come opprimenti”(T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 2245).
È stato anche chiarito che “l’espressione «pratiche commerciali scorrette» designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall’art. 20 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, come si desume dal «considerando 23», un elevato livello comune di tutela dei consumatori, procedendo ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori.
Scopo della normativa è quello di ricondurre l’attività commerciale in generale entro i binari della buona fede e della correttezza. Il fondamento dell’intervento è duplice: da un lato, esso si ispira ad una rinnovata lettura della garanzia costituzionale della libertà contrattuale, la cui piena esplicazione si ritiene presupponga un contesto di piena “bilateralità”, dall’altro, in termini analisi economica, la trasparenza del mercato è idonea ad innescare un controllo decentrato sulle condotte degli operatori economici inefficienti. Le politiche di tutela della concorrenza e del consumatore sono sinergicamente orientate a promuovere il benessere dell’intero sistema economico.
Per «pratiche commerciali» ‒ assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo ‒ si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente «correlati» alla «promozione, vendita o fornitura» di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno «scorretta», il comma 2 dell’art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se «è contraria alla diligenza professionale» ed «è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori».
Nella trama normativa, tale definizione generale di pratica scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. ‘liste nere’) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni ‘speciali’ di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» nonché dalla sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore»” (Cons. Stato, Sez. VI, 14 aprile 2020, n. 2414).
Alla stregua dei declinati principi si può senz’altro concludere che correttamente l’Autorità ha fatto applicazione, nel caso di specie, delle norme di cui artt. 21, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo, avendo ritenuto violate, da parte di Apple, le regole di diligenza professionale esigibili da un operatore del settore di primaria importanza mondiale.”
Conclusioni
Le sanzioni comminate alla Apple hanno riguardato in verità pratiche commerciali mirate a far invecchiare anzitempo prodotti di recente costruzione e non riguardano evidentemente il mancato coordinamento tra gli aggiornamenti software e gli hardware datati di terminali acquistati in un periodo lontano del tempo.
Ad ogni modo chi scrive si domanda se sia lecito o meno impedire il download delle applicazioni (anche di precedenti versioni non più supportate dai produttori) che rendono device datati utili poco più di tavolette che si illuminano e se non fosse più utile conservare la possibilità, evidentemente non priva di rischi in merito alla sicurezza informatica, di proseguire l’utilizzo dell’apparecchio.
Tutti conosciamo le difficoltà di funzionamento di strumenti elettronici vintage, come amplificatori fuori produzione o automobili d’epoca, legate principalmente alle difficoltà di reperire nel mercato i componenti elettronici/meccanici ormai degradati. Ma anche gli strumenti più vintage hanno invero una nicchia di distribuzione che consente almeno l’utilizzo originario del bene acquistato. Riguardo gli Smartphone e i tablet in realtà ciò non è possibile.
La stessa Apple, innanzi al procedimento celebrato innanzi all’AGCOM, descrive i-phone “Sin dal lancio nel 2007 […] come una piattaforma integrata di hardware, software e servizi”. E quindi mi domando, se viene a mancare l’integrazione, possiamo sempre parlare del medesimo prodotto?