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Semplificazioni bis, come sopravvivere alla giungla degli appalti

Luca Sanna • 3 dicembre 2021

Semplificazioni bis, come sopravvivere alla giungla degli appalti rispettando le norme di tracciabilità


Con il Decreto Semplificazioni bis n. 77/2021 il Codice dei Contratti Pubblici è stato parzialmente riformato in tema di affidamento diretto innalzando le soglie per permettere alla Pubbliche Amministrazioni di poter usufruire più agevolmente dei finanziamenti legati al Recovery Fund e al PNRR. Ma non tutto è stato ancora modificato in tema di tracciabilità e permangono alcuni dubbi in merito alla compilazione e al perfezionamento dei CIG.


Dal primo giugno del 2021 è vigente il decreto legge n. 77 del 2021, meglio noto come Decreto Semplificazioni bis che ha introdotto nuove disposizioni al fine di realizzare i traguardi e gli obiettivi imposti all’interno Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e Piano Nazionale Complementare (PNC). Gli articoli dal 47 al 56 del DL 77/2021 prevedono, da un parte nuove semplificazioni per gli affidamenti dei contratti pubblici sotto soglia valide fino al 30 giugno 2023, dall’altra sia alcune modifiche alla disciplina del subappalto e sia ulteriori previsioni di semplificazione e accelerazione delle procedure di affidamento.


Gli affidamenti sotto soglia

In particolare l’art. 51 derubricato come “Modifiche al decreto-legge 16 luglio 2020 n. 76” ha infatti in parte emendato le norme in merito agli affidamenti sotto soglia indetti ai sensi del DL Semplificazioni. In particolare, è stata trasformata la disciplina dell’affidamento diretto che ora prevede la possibilità di affidare direttamente servizi e forniture per un valore fino a 139.000 euro, anziché 75.000 euro come previsto dal primo Decreto Semplificazioni.

In altre parole sotto la soglie di 139.000 euro è possibile oggi procedere attraverso affidamento diretto, senza necessità di alcuna procedura negoziata, usufruendo peraltro della possibilità di utilizzare la disposizione di cui all’art. 32 del D.Lgs. 50/2016 che prevede l’ipotesi semplificata di affidamento: “[…] la stazione appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga, in modo semplificato, l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti”.

L’impatto sulle stazioni appaltanti

Con un unico atto, senza alcun bando, la Pubblica Amministrazione ha oggi la possibilità di affidare appalti anche di notevole valore attraverso un unico provvedimento amministrativo. Per i servizi e le forniture di importo superiore a 139.000 euro ed inferiore alla soglia comunitaria è invece stata introdotta la procedura negoziata senza bando con confronto competitivo di 5 operatori economici e contestualmente è stata eliminata la fascia intermedia (dai 350.000 euro).

Ebbene, tali modifiche hanno colpito indirettamente le Stazioni Appalti in merito agli obblighi comunicativi relativi alla trasparenza e tracciabilità dei flussi finanziari. In altri termini, seppur non direttamente, le modifiche hanno influenzato le procedure relative all’emissione del CIG (Codice Identificativo di Gara), del CIG semplificato (detto anche Smart CIG) e dei derivati (CIG Padre e CIG Figlio).

Cig e Smart Cig, le incongruenze tra norme e applicazioni

Il Cig recita ANAC è un codice alfanumerico generato dal sistema SIMOG dell’ANAC con tre funzioni principali: una prima funzione è collegata agli obblighi di comunicazione delle informazioni all’Osservatorio ed alle successive deliberazioni dell’Autorità, per consentire l’identificazione univoca delle gare, dei loro lotti e dei contratti; una seconda funzione è legata al sistema di contribuzione posto a carico dei soggetti pubblici e privati sottoposti alla vigilanza dell’Autorità, derivante dal sistema di finanziamento dettato dall’articolo 1, comma 67, della legge 266/2005, richiamato dall’art. 213, comma 12, del Codice dei contratti pubblici; una terza funzione è attribuita dalla legge n. 136/2010 che affida al codice CIG il compito di individuare univocamente (tracciare) le movimentazioni finanziarie degli affidamenti di lavori, servizi o forniture, indipendentemente dalla procedura di scelta del contraente adottata, e dall’importo dell’affidamento stesso.

Il Codice CIG è obbligatorio per gli appalti superiori a 40.000 euro e tale soglia non è stata modificata da alcuna normativa di riferimento. Sotto l’importo di 40.000 euro la stazione appaltante può invero accedere ad una procedura più semplice detta Smart CIG che contiene un numero inferiore di informazioni e che viene letto anche in combinato disposto con l’art. 32 del D.Lgs. 50/2016, che, come detto, introduce una procedura semplificata di affidamento diretto senza bando.

Ebbene, tale procedura ha visto innalzare la propria soglia fino a 139.000 euro in virtù delle modifiche introdotte dal Decreto Semplificazioni bis, sicché la Pubblica Amministrazione può oggi procedere ad un affidamento diretto importi superiori a 40.000 euro, ma contestualmente non è esentata dalla creazione di un Codice Identificativo di Gara completo.

Come si crea un CIG

In tal senso occorre precisare come la procedura di ottenimento del CIG necessiti per il perfezionamento (da compiersi entro 90 giorni dalla creazione) l’indicazione di alcuni dati che la stessa Stazione Appaltante potrebbe ignorare in virtù della legittima scelta di procedere senza indizione di bando. Ai fini di un corretto perfezionamento l’ANAC infatti richiede:

  1. La data di pubblicazione del Bando;
  2. La data di scadenza per la presentazione delle offerte;
  3. Ora di Scadenza delle offerte;
  4. Data di scadenza per la presentazione della richiesta di invito;
  5. Data della lettera di invito.

Con evidenza alcuni di questi dati non sono in possesso della Stazione Appaltante non avendo la stessa potuto o voluto procedere per mezzo di una procedura negoziata. Come compilare questi campi?


Per saperne di più vai su https://www.agendadigitale.eu/procurement/semplificazioni-bis-come-sopravvivere-alla-giungla-degli-appalti-rispettando-le-norme-di-tracciabilita/


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Premessa Nel mondo informatico e digitale, nella navigazione tra siti e app mobile, hanno assunto un ruolo da protagonisti i famigerati “cookies”, i pionieri dei sistemi di tracciamento dell’utente del web. Fino a pochi giorni fa la disciplina dell’uso corretto dei cookies era quella tracciata dalle Linee guida adottate dal Garante per la Protezione dei Dati Personali nel 2014. Tuttavia, di fronte al persistere di uno sconfinato utilizzo dei cookie in violazione delle Linee Guida del Garante nonché dei principi stabiliti dal Regolamento UE n. 2016/679 (il GDPR), l’Autorità è nuovamente intervenuta sul punto per delineare in modo più chiaro e netto l’impiego dei “biscotti digitali” affinché il “barattolo” dei cookies si riduca a un mero baratto tra accesso a piattaforme, siti web e servizi in cambio dei dati personali dell’Interessato navigatore. La disciplina dei Cookies prima del Regolamento UE n. 2016/679 Come noto, il Garante Privacy con provvedimento dell’8 maggio 2014 aveva adottato le Linee guida per un uso dei cd. Cookies conforme a quella che all’epoca, ante GDPR, era la normativa vigente in materia di privacy e tutela dei dati personali. Perseguendo l’obiettivo di tutelare gli utenti da profilazioni effettuate a loro insaputa sulla base dei loro comportamenti in rete, il Garante aveva adottato un provvedimento per chiarire e semplificare l’osservanza della disciplina sul corretto utilizzo di tali strumenti di tracciamento e profilazione derivante dalla normativa comunitaria che in Italia era stata recepita nel 2012. Ebbene, l’ambito applicativo della normativa sui cookie rileva per tutti i siti web e le web app che, a prescindere dalla presenza di una sede nel territorio italiano, installano cookie sui terminali degli utenti, utilizzando quindi per il trattamento “strumenti situati sul territorio dello Stato” (così recitava il vecchio testo dell’art. 5, comma 2, del Codice privacy, abrogato con il d.lgs. n. 101/2018). In particolare, secondo i capisaldi delle linee guida del 2014: • i siti che non utilizzano cookie non sono soggetti ad alcun obbligo; • per l´utilizzo di cookie tecnici è richiesta la sola informativa (ad esempio nella privacy policy del sito). Non è necessario realizzare specifici banner; • i cookie analitici sono assimilati a quelli tecnici solo quando realizzati e utilizzati direttamente dal sito prima parte per migliorarne la fruibilità; • se i cookie analitici sono messi a disposizione da terze parti i titolari non sono soggetti ad obblighi (tra cui in primis la notificazione al Garante) qualora: i) siano adottati strumenti che riducono il potere identificativo dei cookie (ad esempio tramite il mascheramento di porzioni significative dell´IP) e ii) la terza parte si impegna a non incrociare le informazioni contenute nei cookies con altre di cui già dispone; • se sul sito ci sono link a siti di terze parti (es. banner pubblicitari; collegamenti a social network) che non richiedono l´installazione di cookie di profilazione non c´è bisogno di informativa e consenso; • nell´informativa estesa il consenso all´uso di cookie di profilazione potrà essere richiesto per singole categorie (es. viaggi, sport); • È possibile effettuare una sola notificazione per tutti i diversi siti web che vengono gestiti nell´ambito dello stesso dominio; • gli obblighi si applicano a tutti i siti che installano cookie sui terminali degli utenti, a prescindere dalla presenza di una sede in Italia. Le novità introdotte dal provvedimento del Garante Privacy del 10 giugno 2021 Il quadro giuridico di riferimento attualmente è costituito tanto dalle disposizioni della direttiva 2002/58/Ce (cd. direttiva ePrivacy) e successive modifiche, come recepita nell’ordinamento italiano all’art. 122 del Codice Privacy, quanto dal Regolamento UE n. 2016/679 per ciò che concerne specificamente la nozione di consenso di cui agli artt. 4, punto 11) e 7) e al Considerando 32, come da ultimo interpretati dalle Linee Guida del WP29 adottate il 10 aprile 2018, ratificate dal Comitato europeo per la Protezione dei dati personali (di seguito, EDPB) il 25 maggio 2018 e sostituite, da ultimo, dalle Guidelines 05/2020 on consent under Regulation 2016/679 adottate il 4 maggio 2020. Sennonchè, la figura dell’Interessato sempre più esigente e propenso a perfezionare o massimizzare la navigazione sul web e i profili personali delle app attivate sui propri dispositivi, da una lato, e le novità del GDPR, incentrato sui principi di privacy by design e privacy by default, e le sempre più numerose segnalazioni prevenute all’Autorità di Controllo negli ultimi due anni, dall’altro latro, hanno inevitabilmente condotto il Garante privacy all’adozione di un aggiornamento della disciplina. L’upgrade delle Linee guida del 2014, passa per i seguenti punti fermi e le relative considerazioni. Anzitutto, osserva il Garante, i cookie e gli altri strumenti di tracciamento possono avere caratteristiche diverse sotto il profilo temporale e dunque essere considerati in base alla loro durata (di sessione o permanenti), ovvero dal punto di vista soggettivo (a seconda che il publisher agisca autonomamente o per conto della “terza parte”). La loro classificazione poggia essenzialmente su due macro categorie: a) i cookie tecnici, utilizzati al solo fine di “effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica, o nella misura strettamente necessaria al fornitore di un servizio della società dell’informazione esplicitamente richiesto dal contraente o dall’utente a erogare tale servizio” (art. 122, comma 1 del Codice); b) i cookie di profilazione, utilizzati per ricondurre a soggetti determinati, identificati o identificabili, specifiche azioni o schemi comportamentali ricorrenti nell’uso delle funzionalità offerte (pattern) al fine del raggruppamento dei diversi profili all’interno di cluster omogenei di diversa ampiezza, in modo che sia possibile inviare messaggi pubblicitari sempre più mirati, cioè in linea con le preferenze manifestate dall’utente nell’ambito della navigazione in rete. Anche per gli altri strumenti di tracciamento si può ricorrere al criterio della finalità per la quale sono utilizzati, ovvero quella meramente tecnica e quella commerciale, per procedere alla loro classificazione. Ciò premesso, il Garante ha chiarito che per l’impiego di cookie tecnici, in virtù della funzione assolta e nei limiti ed alle condizioni richiamate, il titolare del trattamento sarà assoggettato al solo obbligo di fornire l’informativa, anche eventualmente inserita all’interno dell’informativa di carattere generale, rientrando il loro impiego in una ipotesi codificata di esenzione dall’obbligo di acquisizione del consenso dell’interessato. Invece, per i cookie di profilazione e gli altri strumenti di tracciamento potranno essere utilizzati esclusivamente dopo la previa acquisizione del consenso informato dell’interessato utente così come prevede ancora oggi l’art. 122 del Codice privacy. Tale norma è stata introdotta nel d.lgs. n. 196/2003 a seguito del recepimento in Italia della direttiva ePrivacy n. 2002/58/Ce, che, come le norme di diritto interno che la recepiscono, è tuttora applicabile allo specifico settore che riguarda i trattamenti di dati effettuati nell’ambito delle comunicazioni elettroniche. Difatti, il Garante sottolinea come ad esclusione delle fattispecie disciplinate in via esclusiva ed esaustiva dalla direttiva ePrivacy, molte attività di trattamento devono dunque essere ricondotte all’ambito di applicazione tanto della direttiva quanto del Regolamento UE n. 2016/679, con la specificazione tuttavia che, per la parte di potenziale sovrapposizione ogniqualvolta la direttiva renda più specifiche le regole del Regolamento, essa, in quanto lex specialis, dovrà essere applicata e prevarrà sugli articoli del Regolamento. Le disposizioni del GDPR sono invece applicabili per tutte quelle fattispecie non specificamente previste dalla direttiva nonché per offrire, alle norme di questa, la cornice regolatoria di carattere generale entro cui collocarne i precetti, come appunto quella sull’acquisizione del consenso. Ebbene, le Linee guida del 10 giugno 2021 fissano le seguenti novità: a) ai fini della corretta acquisizione del consenso dell’utente al trattamento dei dati il solo “scrolling” (ovvero l’azione consistente nel lasciare scorrere la pagina così da mostrarne sullo schermo la parte sottostante al banner contenente la c.d. informativa breve) non è sufficiente ad integrare un valido consenso dell’interessato all’installazione e all’utilizzo di cookie di profilazione nonché all’utilizzo del c.d. cookie wall che vincolano l’utente a cliccare solo su “ok” pena l’impossibilità di navigare sul sito. Mentre tale ultima tecnica è ritenuta illegittima dal Garante, salva l’ipotesi, da verificare caso per caso, nella quale il titolare del sito consenta all’utente l’accesso a contenuti o servizi equivalenti senza richiesta di consenso all’uso dei cookie o di altri tracciatori, con riferimento allo scrolling l’Autorità ritiene possa essere utilizzata ma solo come componente di un più articolato processo che consenta comunque all’utente di segnalare al titolare del sito una scelta inequivoca nel senso di prestare il proprio consenso all’uso dei cookie. b) sempre nell’ambito dell’acquisizione del consenso è stato evidenziato che, al fine di evitare ridondanti richieste del consenso all’utilizzo dei cookies effettuati da alcuni siti web ad ogni singolo accesso dell’utente che già aveva espresso le sue preferenze al primo accesso – riproposizione della richiesta del consenso e delle preferenze che integra peraltro una sorta di pratica defatigante che mira a sfiancare l’utente del web, che aveva già espresso le sue preferenze, inducendolo a dare in maniera forzosa il consenso all’utilizzo di tutte le diverse tipologie di cookies – , i gestori di siti web debbano evitare di attivare il banner per la raccolta delle preferenze dell’interessato ad ogni accesso. Una volta che l’utente non ha fornito il proprio consenso o lo abbia fornito solo per l’impiego di alcuni cookie, il banner non dovrà più essere ripresentato salvo che in specifici casi, ovvero: i) quando cambiano significativamente una o più condizioni del trattamento, ad esempio le “terze parti”; ii) quando è impossibile per il provider sapere se un cookie tecnico è già stato posizionato nel dispositivo dell’utente (ad esempio nel caso in cui sia l’utente stesso a cancellare i cookie, ricordando che la cancellazione dei cookie dalla cronologia effettuata dall’utente non integra la revoca del consenso dell’interessato); iii) quando sono trascorsi almeno sei mesi dalla precedente presentazione del banner. c) per impostazione predefinita (privacy by design e privacy by default), al momento del primo accesso dell’utente a un sito web, alcun cookie diverso da quelli tecnici può essere posizionato all’interno del dispositivo dell’utente, né può essere utilizzata alcuna altra tecnica attiva o passiva di profilazione. Tuttavia, poiché occorre assicurare anche la libertà di scelta di chi invece intenda accettare di essere profilato, il Garante suggerisce che i gestori dei siti web implementino un meccanismo in base al quale l’utente, accedendo alla home page (o ad altra pagina) del sito web, visualizzi immediatamente un’area di dimensioni sufficienti da costituire una percettibile discontinuità nella fruizione dei contenuti della pagina web che sta visitando, che sia parte integrante di un meccanismo che, pur non impedendo il mantenimento delle impostazioni di default, permetta anche l’eventuale espressione di una azione positiva nella quale deve sostanziarsi la manifestazione del consenso dell’interessato. d) Dunque, secondo il Garante, l’utente che sceglie di mantenere le impostazioni di default e dunque di non prestare il proprio consenso al posizionamento dei cookie o all’impiego di altre tecniche di profilazione, dovrebbe dunque limitarsi a chiudere tale finestra o area cliccando sulla famosa “X” del comando “annulla” posizionata in alto a destra del banner medesimo, senza essere costretto ad accedere ad altre aree o pagine a ciò appositamente dedicate. In tal modo, il Titolare del trattamento opererebbe nel rispetto dei principi della privacy by default e il consenso potrà intendersi come validamente prestato soltanto se sarà conseguenza di un intervento attivo, libero e consapevole dell’utente, riscontrabile e dimostrabile da parte del Titolare (accountability), che consenta di qualificarlo come in linea con il Regolamento. e) Già nelle Linee guida del 2014 ha affermato che i cookie identificativi, ovvero i cookie analytics, possono essere ricompresi nella categoria di quelli tecnici, e come tali essere utilizzati in assenza della previa acquisizione del consenso dell’interessato, al verificarsi di determinate condizioni. Ma, affinché il Titolare operi anche nel rispetto dell’art. 25, paragrafo 1, del Regolamento ovvero attuando “in modo efficace i principi di protezione dei dati”, dovrà anche adottare misure di minimizzazione del dato che riducano significativamente il potere identificativo dei cookie analytics, qualora il loro utilizzo avvenga ad opera di “terze parti”. Ciò implica, a parere dell’Autorità di Controllo italiana, che i cookie analytics possano essere equiparati ai cookie tecnici solo laddove attraverso il loro utilizzo non sia possibile risalire all’identificazione dell’interessato (cd. single out): dunque bisogna impedire l’uso di cookie analytics che, per le loro caratteristiche, possano risultare identificatori diretti ed univoci. Infine, il Garante ricorda che l’uso dei cookie analytics deve essere limitato alla produzione di statistiche aggregate e deve avvenire in relazione ad un singolo sito o una sola applicazione mobile, in modo da non consentire il tracciamento della navigazione della persona che utilizza applicazioni diverse o naviga in siti web diversi. f) Anche l’informativa, antefatto della raccolta del consenso e delle eventuali preferenze dell’interessato, deve essere migliorata affinché gli utenti ricevano un’informativa conforme ai rinnovati requisiti di trasparenza imposti dagli articoli 12 e 13 del Regolamento, compresa l’indicazione circa gli eventuali altri soggetti destinatari dei dati personali ed i tempi di conservazione delle informazioni acquisite. Al riguardo il Garante suggerisce il ricorso a modelli di informativa che sia multilayer, ovvero dislocata su più livelli, e che al contempo possa essere resa, eventualmente in relazione a specifiche necessità, anche per il tramite di più canali e modalità (cd. multichannel), in modo da sfruttare al massimo più canali comunicativi dinamici (es. canali video, pop-up informativi, interazioni vocali, assistenti virtuali, all’impiego del telefono, etc.). I soggetti che in qualità di Titolari del trattamento gestiscono siti web, siti app o app mobili dovranno adeguarsi al testo definitivo delle Linee Guida sottoposte entro il termine di 6 mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Autore: Luca Sanna 3 settembre 2021
Da una parte le ragioni di Apple, per anni indiscusse. Dall’altra, quelle degli sviluppatori. Le cui pressioni cercano di smuovere un castello – quello degli app store, quello di Google incluso – che finora sembrava destinato a restare intatto in eterno. Al momento il castello sembra resistere bene agli assalti. Resilienza, la parola giusta. Primi segnali di cedimento di Apple o è solo un trucco? Lo scorso 26 agosto, quando Apple ha proposto un accordo in transazione con un’associazione di sviluppatori, all’interno di una class action, che è stato definito epocale dalla stampa, ma che in realtà mantiene lo status quo dell’azienda fondata da Steve Jobs per i prossimi tre anni. L’accordo prevede l’impegno della Mela di lasciare invariata la percentuale della commissione sulle transazioni per i prossimi tre anni, di basare la visualizzazione delle app su criteri oggettivi di download e valutazione degli utenti ed infine di aumentare il prezzario delle App e dei servizi associati dal numero di 100 al numero di 500 (in altre parole il prezzo applicato per le App e per i servizi può essere scelto sulla base di 500 possibilità). Dall’altra parte cade l’obbligo per gli sviluppatori di far pagare un contenuto o un abbonamento in app. Molti commentatori, tra cui Jack Nicas del New York Times, hanno definito tale accordo una “farsa”, perché, seppur decada l’obbligo di acquisto all’interno dell’applicazione, ancora non è prevista la possibilità di inserire all’interno delle app un sistema diverso di transazioni. Nei fatti sarà possibile per le aziende informatiche comunicare al cliente la possibilità di usufruire di altri sistemi di pagamento diversi da quello di Apple, così come già stava accadendo dopo che persino Spotify aveva iniziato ad indirizzare i clienti all’interno del proprio sistema interno. Con l’accordo Apple ha proposto il pagamento di 100 milioni di dollari alle aziende querelanti, che però ne richiedono altri 30. Il pagamento non sarà a titolo risarcitorio, ma come un incentivo ai piccoli sviluppatori a proseguire la loro opera meritoria. Da una indiscrezione del NY Times pare che il patto di quota lite tra la difesa dei querelanti e gli sviluppatori si aggiri intorno alla percentuale del 25%. Sicché, dei circa 70 milioni di euro attesi, ogni azienda dovrebbe ricevere da 250 dollari a 30.000 dollari ciascuno in proporzione al fatturato. Occorre precisare che l’accordo del 26 Agosto attende ancora l’approvazione del Giudice Yvonne Gonzalez Rogers della Corte Distrettuale degli Stati Uniti d’America per il distretto della California. Concessione a Netflix, Spotify Un passetto ulteriore è arrivato a inizi settembre, quando Apple ha proposto che le reading app, come Netflix e Spotify, permettano in effetti di pubblicare sistemi di pagamento alternativi all’interno delle app. Ma ancora dalle carte del processo con Fortine – riporta il NYTimes – risulta che i ricavi Apple da questo tipo di app sono trascurabili; il grosso viene dai videogiochi, infatti. Le diverse ragioni Apple sostiene che la percentuale di commissione applicata sulle transazioni, 30 per cento che crea un mercato di 20 miliardi di dollari, è il prezzo che lo sviluppatore paga per appoggiarsi su un negozio che ha una vetrina dalla quale passano potenzialmente 7 miliardi di persone. Così come un negozio nelle vie centrali delle grandi metropoli ha un costo di affitto molto alto, allo stesso modo la presenza all’interno dello Store più famoso del mondo sconta un prezzo elevato. Simili gli argomenti che Google ha sempre sostenuto (con la differenza che permette, a differenza di Apple, di installare app al di fuori del sistema store): la commissione ci permette di mantenere un ambiente sicuro. Gli sviluppatori, soprattutto delle Big Tech, dall’altra parte non sono più disposti a rinunciare ad una parte importante dei loro profitti e hanno così iniziato numerosissime battaglie legali all’interno dei Tribunali distrettuali americani. Il sistema di Apple è semplice. Al momento della immissione all’interno dello Store, l’azienda californiana costringe lo sviluppatore ad usare il suo sistema di pagamento interno, riscuotendo così la propria commissione, in modo automatico. Apple per un lungo tempo ha anche impedito alle aziende di App di inviare mail ai propri clienti per destinarli ad altri sistemi esterni di pagamento. E’ evidente che la maggioranza delle aziende informatiche preferirebbe fare sterzare il cliente al proprio sistema di pagamento, evitando di dover pagare il gettone ad Apple. La prima ribellione Una delle prime aziende che si è lamentata di tale sistema è stata Spotify, l’azienda svedese che offre il servizio di streaming musicale on demand nei confronti di quasi 140 milioni di utenti di cui 70 milioni di abbonati. E’ ironico che un’azienda musicale, evoluzione dell’I-Tunes store, sia stata la prima a rompere il sistema di pagamento interno, facendo registrare i proprio utenti all’interno dell’applicazione, ma impedendo agli stessi di sottoscrivere un abbonamento direttamente dalla App. Laddove un utente Spotify volesse sottoscrivere un abbonamento ha la necessità di andare direttamente sul sito internet dell’azienda. Per favorire ”l’esodo”, Spotify invia una e-mail agli account dei registrati dove pubblicizza semplicemente i servizi, con i relativi link di collegamento, senza mai violare i termini e le condizioni con Apple. Apple e Fortnite: La Royale Battle Non è certo finita qui. Curiosamente lo stesso giudice distrettuale è anche investito di dover decidere la querelle legale tra Epic Games, la società sviluppatrice di Minecraft e Fortnite, e Apple. La ragione della battaglia legale si può facilmente intuire: Fortnite è il gioco online più diffuso tra gli adolescenti e ha avuto il suo debutto nel mercato delle App il 2 aprile del 2018. Il gioco è gratuito, ma prevede una serie di servizi legati al gameplay acquistabili attraverso micropagamenti. Dopo solo il primo mese di pubblicazione si calcola che i guadagni abbiano superato i 25 milioni di Dollari, ed il gioco ha velocemente salito la classifica in termini numerici di download dello store. La genesi dello scontro avviene quando Epic Games decide di introdurre un metodo alternativo di pagamento aggirando Itunes ed impedendo a Apple di riscuotere la propria commissione. Apple si difende dicendo che il proprio Store non è differente rispetto a quello di altri colossi come Playstation o X-Box (Sony e Microsoft) che hanno anche loro un sistema nativo per i pagamenti che non può essere eluso e non comprende le ragioni di tale decisione. La App viene sospesa dallo store per qualche tempo e le parti finiscono innanzi al Tribunale. Uno degli aspetti importanti di questa vicenda sarà quindi la valutazione del giudice in merito ai terminali, I-Phone e I-Pad: se considerare tali device beni “generalisti”, cioè funzionali a più aspetti della vita, oppure devono rientrare in quella definizione che potremo chiamare “special purpose”. Epic Games ha citato a testimonio Lori Wright, responsabile della Xbox Business Development di Microsoft, la quale ha definito console come Xbox un dispositivo special purpose, perché viene utilizzata per uno scopo specifico, mentre un Computer Windows invero si presta ad un numero infinito di scopi. Un altro aspetto che emerso dal dibattimento riguarderebbe la tutela del consumatore. Mentre Epic Games ha imposto il limite di tre rimborsi per account, Apple ha una policy nei confronti dei consumatori molto più permissiva e non pone limiti ai rimborsi. Inoltre c’è un altro aspetto da considerare: Fortnite è accusato da molti osservatori, anche istituzionali, di essere uno strumento che aumenta la compulsività degli utenti più giovani, specie in termini di acquisti effettuati all’interno del gioco. In tal senso Epic Games, così come fatto da Spotify, avrebbe potuto indirizzare gli utenti ad effettuare i pagamenti esterni, e non in app, ma tale scelta avrebbe certamente ridotto gli introiti in maniera rilevante, perché avrebbe probabilmente smorzato “l’entusiasmo” del giocatore. In altre parole, il giocatore avrebbe potuto razionalmente decidere di non effettuare l’acquisto una volta smessi i panni del proprio eroe. Ci sarà un Giudice in California? Così come il mugnaio di Bertold Brecht che lotta contro l’imperatore per difendere i propri diritti, nella battaglia legale più attesa dell’anno si attende un verdetto che potrebbe non apparire più così storico, alla luce dell’accordo tra gli sviluppatori e Apple che potrebbe influenzare il Giudice Rogers verso una sentenza più conservativa. Non ci resta che attendere. https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/apple-e-gli-sviluppatori-chi-vincera-la-battaglia-degli-store/
Autore: Luca Sanna 31 agosto 2021
A causa di un furto di un tablet che utilizzavo principalmente come hub per gestire il lavoro durante le lunghe trasferte, ho deciso di rispolverare un vecchio iPad 3, scoprendo, mio malgrado, che un prodotto informatico basato su una tecnologia un po’ vecchiotta è oggi inutilizzabile: in altri termini non è possibile scaricare alcuna applicazione compatibile all’interno dello store nel caso in cui si utilizzi un nuovo account. In realtà ancora oggi il prodotto, da un punto di vista hardware, seppure datato, può essere considerato un tablet entry level – eppure non c’è stato modo di poterlo utilizzare a causa della incompatibilità con le applicazioni. Ebbene tale vicenda sarebbe oggi chiamata dai Geek “obsolescenza programmata”, una definizione, ormai divenuta di uso comune, che identifica quel processo dei grandi produttori di elettrodomestici e di devices informatici, che impedisce un uso prolungato del proprio bene di consumo, permettendo al mercato di avere sempre una domanda stabile e crescente del medesimo bene. Le pratiche commerciali mirate a far invecchiare anzitempo prodotti di recente costruzione sono tornate alla ribalta della cronaca in seguito alle sanzioni comminate proprio a Apple, ma non sono certo una cosa recente. Ricostruiamone l’origine prima di arrivare ai casi più recenti. La cospirazione delle lampadine Eppure, il più eclatante caso di obsolescenza programmata non è quello degli smartphone, come si potrebbe immaginare, bensì quello delle lampadine. Il cartello Phoebus (in inglese Phoebus cartel «cartello Febo») fu un famoso episodio nel quale i maggiori produttori di lampadine nel 1924 costituirono un “trust”, ovvero un cartello. WHITEPAPER Guida per il rientro in ufficio: come ripensare la gestione degli spazi in azienda Scarica il White Paper Scarica il Whitepaper Un cartello economico è un patto tra più operatori di un settore che mira a limitare la concorrenza di un mercato, fissa alcuni parametri, quali prezzo e condizioni di vendita, determina alcuni target produttivi e stabilisce una logistica distributiva che garantisca un equo guadagno tra i partecipanti all’accordo. Ebbene nel lontano 1924 diverse società concordarono dei parametri per il controllo e la vendita di lampadine. Il nome Febo deriva dalla società svizzera registrata nel 1916 con il nome di la Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage. La costituzione di tale cartello è considerato il primo grande passo nella moderna storia dell’economia in relazione alla obsolescenza pianificata in quanto i partecipanti decisero di pattuire la vita media di una lampadina permettendo così un aumento del numero dei prodotti venduti. I membri del cartello erano la General Electric Company, la Tungsram, la Compagnie di Lampes, la OSRAM e la Philips i quali decisero che una lampadina dovesse avere una durata media di 1000 h. Prima di tale cartello la vita media di un lampadina era decisamente superiore: è famoso il caso della lampadina che si trova attualmente all’interno della caserma dei Vigili del Fuoco di Livermore, in California, che è accesa da ben 120 anni e fu addirittura nomenclata come Centennial Light. Il cartello si sciolse alla fine degli anni ’30 e in seguito tale vicenda arrivò addirittura innanzi alla Corte Suprema Americana che condannò la General Electric ad un salato risarcimento nella causa civile n. 1364 iniziata nel 1942 e conclusa nel 1953. L’obsolescenza programmata nei devices elettronici Un esempio fastidioso di obsolescenza pianificata riguarda quello delle cartucce delle stampanti, nelle quali è ormai presente un chip che determina il termine finale della cartuccia anche laddove sia ancora presente inchiostro. Ebbene, l’esempio è ancora più eclatante nelle cartucce incluse all’interno delle scatole della stampante che hanno una vita media decisamente inferiore a quelle acquistate successivamente, in quanto il modello di business è propriamente basato sul guadagno derivante dai prodotti accessori, piuttosto che dall’utile marginale del singolo device. Eppure, quasi tutti gli elettrodomestici si basano sui medesimi principi, così come per esempio le automobili acquistate possiedono un libretto di manutenzione che stabilisce la vita media dei prodotti consumabili, che a volte esula dalla reale necessità di sostituzione meccanica di un determinato componente. Il caso Apple: le sanzioni dell’Agcm Nel gennaio del 2018 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inteso iniziare una procedura di infrazione nei confronti della società Apple per le seguenti ragioni: “A) la proposta insistente, ai consumatori in possesso di iPhone 6/6plus/6s/6splus, di procedere ad installare il sistema operativo iOS 10 e i successivi aggiornamenti (tra cui iOS 10.2.1) le cui caratteristiche e impatto sulle prestazioni degli smartphone stessi sono state descritte in maniera omissiva ed ingannevole, senza offrire (se non in misura limitata o tardiva) alcun mezzo di ripristino dell’originaria funzionalità degli apparecchi in caso di sperimentata diminuzione delle prestazioni a seguito dell’aggiornamento. In particolare, secondo informazioni acquisite ai fini dell’applicazione del Codice del Consumo e le segnalazioni di alcuni consumatori 5 pervenute nel dicembre 2017, Apple, in occasione della release del sistema iOS 10.1, non ha informato i clienti dei possibili inconvenienti di funzionamento che il nuovo SO avrebbe potuto provocare attesa la configurazione hardware degli smartphone in cui sarebbe stato installato (ed in particolare del grado di usura della batteria) in determinate condizioni d’uso comune. Inoltre, in occasione della release del sistema iOS 10.2.1, Apple ha omesso di informare preliminarmente i consumatori, in maniera chiara e immediata, che per evitare alcuni rilevanti inconvenienti (quali l’improvviso spegnimento/riaccensione del proprio iPhone) tale release includeva un sistema di gestione delle prestazioni dello smartphone che avrebbe opportunamente rallentato tali prestazioni per evitare lo spegnimento inatteso – sistema mantenuto anche in successivi aggiornamenti di iOS; B) la mancata informazione sulle caratteristiche della batteria e specificamente in merito alle condizioni per mantenere un adeguato livello di prestazioni degli iPhone, alla sua durata e alle modalità per la sua corretta gestione al fine di rallentarne la naturale usura e, quindi, in merito alla sostituzione della medesima batteria.” A seguito di una lunga istruttoria nella quale Apple si è difesa sostenendo fondamentalmente come (così si legge all’interno del provvedimento dell’AGCM): “ […] Non vi sarebbero prove dirette riguardo una strategia di obsolescenza programmata. Al contrario, il piano di sostituzione annuale di Apple – rispondente ad una sua libera scelta commerciale e attuato principalmente attraverso appositi accordi con gli operatori telefonici – mirerebbe unicamente ad allettare la clientela con nuovi modelli e non vi sarebbe alcuna coartazione della volontà dei consumatori che scelgono di optare per la permuta annuale del proprio dispositivo utilizzato dalle aziende produttrici di stampanti si basa sul guadagno derivante dalle cartucce. Apple evidenzia inoltre che, nel periodo dal giugno 2016 al gennaio 2018, il graduale calo del numero di sostituzioni gratuite dei modelli interessati – cui peraltro non si accompagna un aumento di quelle a pagamento – sarebbe collegato al progressivo esaurimento della garanzia. Inoltre, il grande numero di sostituzioni gratuite nel periodo considerato testimonierebbe la volontà di Apple di favorire l’accesso degli utenti a un dispositivo nuovo, anche oltre la durata della garanzia. Apple sottolinea che le contestazioni formulate in esito all’istruttoria avrebbero dovuto essere suffragate da un’analisi economica volta a esaminare la posizione dei professionisti nel mercato rilevante, per rintracciare un’eventuale posizione dominante. Anche la conservazione del valore degli iPhone nel mercato dei prodotti di seconda mano dimostrerebbe la mancanza di prove circa l’esistenza di una strategia di obsolescenza programmata.” Malgrado le difese svolte l’AGCM ha riscontrato le violazioni in merito alle pratiche commerciali secondo tali conclusioni: “ […] Da quanto affermato in precedenza emerge che ai consumatori che avevano acquistato iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus è stato insistentemente proposto l’aggiornamento del sistema operativo iOS 10 e del successivo aggiornamento 10.2.1, senza che fossero adeguatamente informati degli inconvenienti che tali installazioni avrebbe potuto comportare e senza provvedere, se non tardivamente ed in maniera limitata, a rimediare a tali inconvenienti. Apple ha potuto indurre i consumatori ad accettare tali aggiornamenti anche grazie all’asimmetria informativa esistente con essi, che porta tali consumatori a essere costretti a riporre la loro fiducia in quanto affermato da Apple sulla utilità e bontà di tali aggiornamenti. 162. Per i motivi sopra esposti, la pratica commerciale in esame risulta scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, 22 e 24 del Codice del Consumo, in quanto Apple ha sviluppato e suggerito aggiornamenti firmware iOS 10 e 10.1.2 per gli iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus già acquistati dai consumatori che ne modificano le caratteristiche funzionali già ampiamente pubblicizzate e ne riducono in maniera sensibile le prestazioni, nonché ha indotto in errore i consumatori nella decisione di procedere all’installazione di tali aggiornamenti. Infine, sotto altro profilo, il professionista ha indebitamente condizionato i consumatori, da un lato, inducendoli ad aggiornare il firmware mediante l’insistente richiesta di procedere ad effettuare il download e l’installazione degli aggiornamenti, dall’altro, non prestando un’adeguata assistenza ai consumatori per ripristinare la funzionalità preesistente dei loro apparecchi, in tal modo accelerando il processo di sostituzione di tali apparecchi con nuovi modelli di iPhone. La seconda pratica commerciale consiste nella mancata ed insufficiente informazione su alcune caratteristiche essenziali delle batterie, quali la vita media e deteriorabilità delle batterie e la loro correlazione con le prestazioni degli iPhone, specificamente con riferimento alle batterie degli iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus. Essa riguarda inoltre la mancata indicazione di corrette procedure per verificare e/o mantenere un adeguato livello di prestazioni della batteria e quindi dei propri dispositivi cellulari, della necessità di procedere alla sostituzione della stessa in relazione alle modalità di utilizzo e alle eventuali maggiori richieste degli aggiornamenti iOS. Tali informazioni sono state fornite dal professionista solo a partire dagli ultimi giorni di dicembre 2017.” Per le ragioni sopra espresse l’Agcm ha multato la Apple per 5 milioni di euro per ogni infrazione contestata, ai sensi dell’art. 27 comma 9 del Codice del Consumo, applicando la pena massima edittale prevista per un importo totale di € 10.000.000,00. Il Tar del Lazio Apple ha deciso di impugnare il provvedimento dell’Agcm innanzi al competente Tribunale Amministrativo del Lazio – Roma, seppur dopo aver pagato la sanzione, per le ragioni che il TAR nel provvedimento n. 5736 del 29.05.2020 ha così riassunto: “[…] Con una prima e unica sostanziale censura la parte ricorrente lamenta, in estrema sintesi, il difetto di istruttoria sui vari profili tecnici sulla base dei quali l’AGCM ha ritenuto che la pratica sub A) configuri una pratica scorretta (motivi I, II, e III). Secondo Apple l’Autorità sarebbe giunta a conclusioni erronee, in assenza di prove tecniche, sul peggioramento delle performance dei dispositivi Apple e sul presunto danno arrecato dal download di IOS 10. L’Autorità, al contempo, avrebbe omesso di considerare spiegazioni alternative più plausibili e fondate su dati tecnico-scientifici, presentati nel corso dell’istruttoria da parte delle ricorrenti. Con un secondo gruppo di motivi si sostiene che la complessiva condotta di Apple non integrerebbe gli estremi dell’aggressività e della scorrettezza, anche in considerazione dei limitati effetti che avrebbe prodotto e della durata della condotta, che sarebbe stata erroneamente stimata dall’Autorità (motivi IV, V, VI, VII, VIII e IX). Con l’ultimo motivo, riferito alla pratica sub B), la parte ricorrente contesta di essere stata lacunosa rispetto all’informativa sulla durata della batteria affermando che le informazioni relative al normale invecchiamento delle batterie e alla conseguente necessità di sostituirle sarebbero inidonee a integrare una pratica commerciale omissiva. In ogni caso, lamenta che l’AGCM avrebbe introdotto nel provvedimento conclusivo condotte mai considerate prima, in violazione del principio del contraddittorio (motivo X).” All’interno del presente articolo si eliminano le censure effettuate con motivi aggiunti, di natura formale, che nulla arricchiscono rispetto al focus dell’approfondimento. Il Tar all’esito del giudizio ad ogni modo ha confermato la sanzione dell’Agcm specificando quanto segue: “le pratiche commerciali aggressive non sono necessariamente connotate dal ricorso alla violenza fisica o verbale, ma sono certamente accomunate dal fatto che il consumatore viene a trovarsi in situazione di “stress” che lo condiziona nel decidere e tale “stress” può essere determinato sia da condotte del professionista ripetute e irriguardose della volontà del cliente, sia dalla esistenza di vincoli contrattuali percepiti come opprimenti”(T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 2245). È stato anche chiarito che “l’espressione «pratiche commerciali scorrette» designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall’art. 20 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, come si desume dal «considerando 23», un elevato livello comune di tutela dei consumatori, procedendo ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori. Scopo della normativa è quello di ricondurre l’attività commerciale in generale entro i binari della buona fede e della correttezza. Il fondamento dell’intervento è duplice: da un lato, esso si ispira ad una rinnovata lettura della garanzia costituzionale della libertà contrattuale, la cui piena esplicazione si ritiene presupponga un contesto di piena “bilateralità”, dall’altro, in termini analisi economica, la trasparenza del mercato è idonea ad innescare un controllo decentrato sulle condotte degli operatori economici inefficienti. Le politiche di tutela della concorrenza e del consumatore sono sinergicamente orientate a promuovere il benessere dell’intero sistema economico. Per «pratiche commerciali» ‒ assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo ‒ si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente «correlati» alla «promozione, vendita o fornitura» di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali. Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno «scorretta», il comma 2 dell’art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se «è contraria alla diligenza professionale» ed «è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori». Nella trama normativa, tale definizione generale di pratica scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. ‘liste nere’) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni ‘speciali’ di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» nonché dalla sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore»” (Cons. Stato, Sez. VI, 14 aprile 2020, n. 2414). Alla stregua dei declinati principi si può senz’altro concludere che correttamente l’Autorità ha fatto applicazione, nel caso di specie, delle norme di cui artt. 21, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo, avendo ritenuto violate, da parte di Apple, le regole di diligenza professionale esigibili da un operatore del settore di primaria importanza mondiale.” Conclusioni Le sanzioni comminate alla Apple hanno riguardato in verità pratiche commerciali mirate a far invecchiare anzitempo prodotti di recente costruzione e non riguardano evidentemente il mancato coordinamento tra gli aggiornamenti software e gli hardware datati di terminali acquistati in un periodo lontano del tempo. Ad ogni modo chi scrive si domanda se sia lecito o meno impedire il download delle applicazioni (anche di precedenti versioni non più supportate dai produttori) che rendono device datati utili poco più di tavolette che si illuminano e se non fosse più utile conservare la possibilità, evidentemente non priva di rischi in merito alla sicurezza informatica, di proseguire l’utilizzo dell’apparecchio. Tutti conosciamo le difficoltà di funzionamento di strumenti elettronici vintage, come amplificatori fuori produzione o automobili d’epoca, legate principalmente alle difficoltà di reperire nel mercato i componenti elettronici/meccanici ormai degradati. Ma anche gli strumenti più vintage hanno invero una nicchia di distribuzione che consente almeno l’utilizzo originario del bene acquistato. Riguardo gli Smartphone e i tablet in realtà ciò non è possibile. La stessa Apple, innanzi al procedimento celebrato innanzi all’AGCOM, descrive i-phone “Sin dal lancio nel 2007 […] come una piattaforma integrata di hardware, software e servizi”. E quindi mi domando, se viene a mancare l’integrazione, possiamo sempre parlare del medesimo prodotto?
Autore: Luca Sanna 29 luglio 2021
Trovare le ragioni della volatilità del mercato delle criptovalute è sempre difficile, in quanto dietro le criptovalute non esiste un mercato dell’economia reale, non esiste un prodotto o una materia prima venduta, non esiste un’entrata indipendente dal mercato finanziario e allo stesso tempo non vi è nemmeno l’impiego di manodopera che possa generare un contesto stabile. Allo stesso tempo è difficile comprendere le curve tra domanda e offerta in un ambito nel quale è sempre possibile la creazione di moneta. Per tale ragione il “sentiment” e il “feeling” del compratore e dell’investitore in criptovalute determina il suo valore, ma non in quanto acceleratore di comportamenti, quali la fiducia nei mercati, ma in virtù proprio dell’emozione del momento. La volatilità delle criptovalute Se all’aspetto emozionale si somma una completa deregolamentazione normativa ci si accorge che lo strumento è lasciato alla libera scelta di persone poco preparate, non istituzionali, che si lasciano coinvolgere dalle fluttuazioni momentanee poiché il loro stesso orizzonte temporale è limitato. Giovani, millennials, influencer, speculatori geek e programmatori rappresentano la base di un mercato speculativo privo di disciplina governativa. Questo può spiegare la volatilità delle criptovalute. Il MEF – Ministero dell’economia e della finanza, in una risposta del 26.05.2021 a una interpellanza parlamentare promossa dal Movimento 5 Stelle ha inteso riferirsi alle criptovalute come “ […] criptoattività di natura altamente speculativa e senza alcun sottostante a sostegno del suo valore” e allo stesso tempo ha auspicato l’intervento del legislatore in quanto l’assenza di normative di riferimento si riverbera in perdita di occasioni per gli imprenditori della new economy (Miner, Yel-Farming, NFT, ecc.). Ma di che valore stiamo parlando in termini di perdita di chance economica? Il valore delle criptovalute Seppur storicamente precedente il valore delle criptovalute inizia il proprio rally nel 2008 con la crisi bancaria mondiale. Gli investitori, scottati dai mercati tradizionali, rifuggono dagli investimenti bancari per trovare una alea deregolamentata nelle criptovalute. Nel 2016 la criptovaluta Ethereum (la seconda per ordine di importanza) era scambiata con il prezzo di 13 dollari. Il 7 maggio del 2021 aveva raggiunto il suo apice di 3.483 dollari, per subire successivamente un calo vertiginoso. Bitcoin ha avuto un’evoluzione simile ma con una forbice che è andata da 5 dollari nel 2012 a 55.000 dollari nel 2021, perdendo però come detto ben 20.000 dollari negli ultimi giorni. Litecoin ha avuto anch’essa un andamento simile passando da 3 dollari del 2016 agli attuali 189 dollari con picchi di quasi 400 dollari il mese scorso. Dogecoin, criptovaluta di nuova creazione, quest’anno ha invece guadagnato oltre il 12.000%. Quanto sono inquinanti le criptovalute L’economista americano Alexander Benfield, analista delle criptovalute di Weiss Ratings, intervistato da Jurica Djumovic di Market Watch ha specificato come il mining dei Bitcoin impieghi circa 130 Terawattora all’anno (tutti gli Stati Uniti D’America consumano circa 4.000 Terawattora annui, un impiego smisurato di energia. 1 Terawattora corrisponde a 1000 Gigawattora). Ma ciò che i dati nascondono è la provenienza di tale consumo energetico, che varia dal 39% al 73% in energia rinnovabile. Inoltre, gran parte di tale energia rinnovabile è consumata direttamente alla fonte, senza essere trasportata dalle aree rurali (specialmente cinesi) e rappresenta pertanto energia in surplus. Peraltro, il concetto di mining sotteso alla creazione dei blocchi è proprio quello della complessità crescente e quindi proporzionale al consumo di energia: semmai la sfida del futuro è quella di creare sistemi che possano ottimizzare il consumo energetico o incentivare l’indipendenza energetica di criptovalute complesse. Le criptovalute cosiddette “green” evidentemente possiedono un grado di complessità irrilevante e come tale sono basate su reti sottodimensionate o addirittura inesistenti. Il movimento $Stopelon per fermare la volatilità delle criptovalute Se è sufficiente un annuncio di Elon Musk su Twitter per manipolare il mercato delle criptovalute, occorre difendersi dagli annunci “wow” anche attraverso lo stesso “sentiment” che svolge un ruolo di primaria importanza nell’effetto valanga derivato da singoli tweet di personaggi influenti. Per questa ragione è sul mercato da pochi giorni la moneta virtuale $Stopelon i cui membri, miner e investitori, avversando la politica della volatilità richiedono alla comunità di comprare e tenere (Buy&Hold) e in poche ore il token ha raggiunto ben 34 milioni di dollari di capitalizzazione, mentre il canale Telegram già conta più di 17mila iscritti. Il nuovo token è emerso sulla blockchain di Binance Smart Chain e ha già registrato una crescita del 5.000% da 0,0000019 a 0,00009450 dollari. Conclusioni Sono molto lontani i tempi del baratto e l’idea di diventare ricchi improvvisamente, anche senza merito, pervade la storia dell’uomo in maniera costante. Immaginare che gli stati si privino della possibilità di istituzionalizzare il mercato delle criptovalute e di rinunciare alle entrate derivanti dal mercato è da ingenui, ma trovare il modo di regolare un sistema non regolabile con le categorie mentali della vecchia economia è altrettanto utopistico. Fintanto che il mondo sarà governato dai “boomers”, tra i quali lo scrivente, non vi sarà modo di comprendere il fenomeno e di provare a regolarlo senza ucciderlo LINK: https://www.blockchain4innovation.it/criptovalute/criptovalute-perche-il-mercato-e-cosi-volatile/
Autore: Luca Sanna 15 luglio 2021
’idea di arricchirsi senza sudare troppo è innata nell’uomo, ma non è detto che sia tanto facile. Lo dimostra il numero crescente di truffe che prende di mira gli investitori in bitcoin e altre criptovalute. Di che numeri parliamo? Facciamo il punto. La vertiginosa crescita delle criptovalute viene vista e anche presentata da alcuni servizi online come un’occasione di facile guadagno. Bitcoin e la sua crescita dai 5 dollari nel 2012 fino agli oltre 100.000 dollari del 2019 rappresenta il caso più eclatante, ma non l’unico, e certamente è indicativo di un fenomeno attrattivo da parte dell’investitore che, attraverso gli strumenti tradizionali, non potrebbe minimamente avvicinarsi a tale tipo di rendimenti. Il mercato delle truffe Accanto alla crescita vertiginosa delle lotterie e dei soldi facili, così come in un moderno gioco delle tre carte, si è accompagnata la crescita dei truffatori, aiutati peraltro dalla mancanza di regolamentazione statale e internazionale delle criptovalute e dall’anonimato che contraddistingue lo strumento del mercato digitale. Secondo la Federal Trade Commission, un’agenzia federale americana che si occupa fin dal primo dopoguerra di tutela dei consumatori, le perdite legate alle truffe informatiche in relazione al mercato della moneta digitale ammontano ad 82 ​​milioni di dollari durante il quarto trimestre del 2020 e il primo trimestre del 2021, oltre 10 volte l’importo rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente. Certamente il periodo di lockdown ha incrementato le occasioni di incontro tra malintenzionati online e consumatori bramosi di ottenere la propria fetta di fortuna. I truffatori hanno inteso prendere di mira tutta la platea di destinatari della propria azione, dai piccoli investitori che perlustrano i social media in cerca di consigli sui loro piccoli investimenti, ai veterani di Wall Street che hanno sostenuto un gestore di fondi di criptovalute australiano recentemente accusato di aver eseguito una frode da 90 milioni di dollari. Fare fortuna senza fatica, un’idea innata È una idea innata nell’essere umano quella di poter fare fortuna senza fatica e senza difficoltà fin dai tempi degli antichi romani. L’imperatore Vespasiano durante le feste per le Kalendae Martiae distribuiva alcuni biglietti che venivano chiamati apophoreta il cui autore si diceva fosse Marziale, che con tale nome ha successivamente pubblicato una raccolta. Gli apophoreta in gergo letteralmente indicavano “cose da portar via”. Infatti, alla fine delle occasioni conviviali i bigliettini a volte venivano distribuiti e scombinati affinché gli ospiti portassero via i doni, come una vera e propria riffa. Si racconta di Elagabalo, imperatore romano della dinastia dei Severi, il quale mise in palio dieci cammelli e dieci mosche, dieci libbre d’oro e dieci di piombo. Si può facilmente sostenere come il desiderio di “diventare ricchi” non sia minimamente cambiato nella storia dell’uomo, dalla lotteria nazionale, al superenalotto passando per il totocalcio e infine alla lotteria degli scontrini. Il caso lub token Alcuni creatori e speculatori nei primi mesi del 2021 hanno lanciato un servizio per scambiare criptovalute: per la prima volta consumatori e utilizzatori avrebbero potuto comprare il token LUB attraverso un exchanger disponibile sul servizio di messaggistica Telegram. Il guadagno promesso variava dall’1% al 10% al giorno e questo ha attirato numerosissime adesioni, ma malgrado i grandi investimenti privati dopo qualche mese il servizio è sparito dal web e il sito internet oggi appare disattivo. Precisiamo come il LUB Token si basasse su tecnologia Ethereum, la seconda criptovaluta in ordine di importanza oggi in circolazione. “Mi vergogno e ancora non riesco a capire quanto sono stato stupido”, ha detto Sebastian, che ha investito ingenti somme sul servizio LUB e che ha chiesto che il suo cognome non fosse pubblicato dal Wall Street Journal in modo da non essere preso di mira dai troll di Internet. Sono migliaia le esperienze che si trovano online simili a quelle di Sebastian e sono nati addirittura numerosissimi gruppi Telegram come “Lub Token=scam!!!” per denunciare la pratica commerciale scorretta. Il Wall Street Journal ha stimato che le vittime nella sola Germania hanno perso tra 500.000 e 1,5 milioni di euro a causa dello schema. La polizia tedesca sta indagando sulle denunce relative allo schema LUB in tutto il paese, ha affermato un portavoce della polizia nella città di Aalen, che ha ricevuto una denuncia a maggio. Come difendersi dalle truffe Partendo dal presupposto che una truffa basata sullo schema LUB TOKEN è difficile da intuire, poiché ha ingannato anche gli investitori più attenti, i consumatori o i semplici utilizzatori di moneta digitale dovrebbero prestare alcuni necessari accorgimenti. Difendersi dalle truffe online sta diventando sempre più difficile, ma prima di investire soldi in criptovalute false comprate attraverso siti fake, i consumatori dovrebbero seguire alcuni semplici consigli. A differenza, infatti, dei pagamenti con carte di credito, molte transazioni in criptovalute non sono annullabili o revocabili, sicché anche se il sito presenta caratteristiche del tutto simili al portale generalmente utilizzato occorre prestare attenzione alla presenza del lucchetto prima dell’indirizzo URL. Può succedere inoltre di fare clic su un link che sembri identico al sito originale in tutto e per tutto, mentre gli autori dell’attacco hanno creato un URL falso con uno zero al posto di una lettera ‘o’. Controllare anche due volte potrebbe far risparmiare molti soldi. Lo stesso principio vale per le app del telefono false (il rischio maggiore è sul market Android), sebbene gli store ufficiali riescano spesso a individuare e rimuovere queste app. Migliaia di persone hanno già scaricato app di criptovaluta false, come segnalato da Bitcoin News; anche in questo caso, le app fake presentano errori di ortografia evidenti nella copia o addirittura nel nome dell’app, il marchio commerciale sembra a volte contraffatto con colori diversi o più sbiaditi rispetto all’originale. Una ulteriore verifica prima del download è opportuno. Una nuova moda è quella di lanciare aggiornamenti o news attraverso account social (twitter, facebook, instagram, ecc.) falsi di personaggi famosi: attenzione alla spunta blu vicino al nome che contraddistingue il più delle volte un account ufficiale. Di che numeri parliamo? È difficile stimare quanti soldi perdono gli investitori a causa delle frodi online. Le cifre della FTC si basano sull’autodichiarazione delle vittime di truffe e sono in gran parte limitate agli Stati Uniti, quindi probabilmente riflettono solo una parte delle perdite totali. Peraltro, non sempre i truffati sporgono denuncia, un po’ per vergogna, un po’ perché i soldi investiti nelle scommesse informatiche sono considerati dagli investitori come un rischio calcolato. CipherTrace, una società di analisi blockchain che tiene traccia delle segnalazioni di crimini crittografici in tutto il mondo, afferma che i truffatori stanno guadagnando meno di quanto non facessero in passato, da 4,1 miliardi di dollari nel 2019 a 432 milioni durante i primi quattro mesi di quest’anno. I conteggi di CipherTrace per il 2019 e lo scorso anno sono stati elevati a causa dell’esposizione di alcuni grandi schemi Ponzi in Asia. Conclusioni I dati rappresentati dal Wall Street Journal sono solo la punta di un iceberg che nel tempo emergerà sempre più. La agognata regolamentazione del mercato probabilmente cercherà di trovare una soluzione al problema, anche se gli alti guadagni fin’ora registrati scoraggiano l’intervento statale. Ci troveremo a breve di fronte a un crollo come nel 1929 e come nel 2008? Solo la storia potrà dirlo, di certo per adesso sappiamo che da una forte deregolamentazione è sempre seguita una veloce speculazione e una inevitabile caduta. https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/pagamenti-digitali/bitcoin-come-ti-raggiro-gli-investitori-le-ultime-truffe-e-in-che-modo-difendersi/
Autore: Luca Sanna 24 giugno 2021
La prima legge che mirava a superare i monopoli è canadese ed è datata 1889. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: ora siamo nell’era digitale e molte delle normative varate anche in tempi recenti cominciano a essere inadatte a sanare le storture del mercato digitale. Il caso Google-Enel X è solo l’ultimo. La sanzione da oltre cento milioni di euro recentemente comminata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a Alphabet Inc., Google LLC e Google Italy rappresenta solo l’ultimo episodio di limitazione della concorrenza all’interno del mercato globale che però assumerà per il futuro connotati ulteriori e sempre diversi, anche nei mercati fisici (si pensi al posizionamento organico dei negozi virtuali), vedendo coinvolti non solo colossi – come nel caso specifico Enel X – ma anche singoli operatori che non avranno né la disponibilità economica né la forza politica di incidere su atteggiamenti abusivi. Ritorniamo pertanto sulla questione per approfondire il tema dell’abuso di posizione dominante declinato all’era digitale e lo stato dell’arte dell’antitrust in Italia dal momento che le circostanze in esame sono certamente un punto di partenza per migliorare una normativa che ormai inizia a sentire il peso degli anni. Articolo Intero pubblicato su Agenda Digitale: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/abuso-di-posizione-dominante-nel-digitale-il-caso-agcm-contro-google-e-altre-distorsioni/
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