Ricade sotto le tutele previste dal GDPR e dal Codice del Consumo la protezione delle informazioni digitali, nuova moneta di scambio fra operatori di mercato. Analizziamo i principali passaggi e vediamo come una maggior “cultura del consumatore” rappresenti una leva di efficienza. E di correttezza. Un nuovo intervento dell'Avv. Tiziana Pica sulle pratiche commerciali illecite pubblicato su agenda digitale: https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/dati-personali-e-pratiche-commerciali-ecco-dove-si-nasconde-lillecito/
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Che i dati personali abbiano un valore economico non è certo un segreto. La spinta evolutiva del dato personale è legata alle attività commerciali: sia quelle svolte all’interno di locali commerciali sia quelle realizzate al di fuori, a distanza (e-commerce), o alle pratiche commerciali realizzate tra professionisti e consumatori e tra professionisti e piccole imprese. Un’analisi dei dettagli normativi di GDPR e Codice del Consumo mirati a difendere dati personali e consumatori.
La persona fisica che agisce al di fuori della propria attività commerciale artigianale, professionale – ovvero il consumatore – è al centro di due distinte forme di tutele che mirano contemporaneamente a tutelarne, sotto profili diversi, i suoi dati personali. Il trattamento illecito del dato personale e/o delle categorie particolari di dati personali si intreccia con l’esercizio di quelle pratiche commerciali rilevate per essere ingannevoli o aggressive, ovvero scorrette.
Consumatori e pratiche commerciali scorrette
La politica dei consumatori ha segnato un traguardo significativo con la direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali[1] che è stata recepita in Italia con i decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007, in vigore dal 21 settembre 2007.
Il D.lgs. n. 146/2007 ha introdotto all’interno del Codice del Consumo (agli artt. 18 – 27quater) la normativa sulle pratiche commerciali scorrette. Venendo al destinatario di tale tutela si ricorda che il consumatore è “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” (art. 3, comma 1, lett. a) Cod. Consumo) e, nell’ambito delle pratiche commerciali – ovvero di “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” (art. 18, comma 1, lett. d) Cod. Consumo) – è “qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” (art. 18, comma 1, lett. a) Cod. Consumo).
Ogni singolo individuo agisce come consumatore quando, in maniera libera, informata e consapevole assume delle decisioni di natura commerciale – “decisione presa da un consumatore relativa a se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a quali condizioni, se pagare integralmente o parzialmente, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto; tale decisione può portare il consumatore a compiere un’azione o all’astenersi dal compierla” (art. 18, comma 1, lett. m) Cod. Consumo) – a seguito della condotta, attiva od omissiva, realizzata nei suoi riguardi dal professionista[2].
Se il consumatore è il soggetto che quotidianamente, entrando in un negozio oppure nell’ambito dei contratti conclusi a distanza[3] o mediante la sottoscrizione dei contratti conclusi fuori dai locali commerciali[4], compie delle scelte sulla base delle offerte commerciali trasmesse mediante posta cartacea, email, annunci pubblicitari che lo inseguono navigando sui siti web, telefonate dei call center, appare evidente come la realizzazione della pratica commerciale sia veicolata, strutturata e formulata anche e proprio grazie all’utilizzo dei dati personali di quel consumatore. Basti solo pensare alla profilazione.
Ciò premesso è opportuno focalizzare quali siano le condotte da cui l’utente deve essere messo nelle condizioni di difendersi, ovvero le pratiche commerciali “scorrette” che rilevano come ingannevoli e/o aggressive.
Presupposti a pratiche commerciali scorrette
Il consumatore medio[5], e non quello disinformato e pigro, viene posto al centro della tutela delineata dall’art. 20 cod. cons., ovvero dalla clausola generale del divieto di pratiche commerciali scorrette. Ai sensi dell’art. 20, comma 2, l’accertamento della scorrettezza verte su due presupposti, ovvero la contrarietà della pratica alla diligenza professionale da un lato, ed il fatto che la stessa falsi o “sia idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta ad un determinato gruppo di consumatori” dall’altro. Nella prima ipotesi si valuta la competenza e l’attenzione che nello specifico caso ogni consumatore si aspetta dal professionista in relazione ai principi di correttezza e buona fede nel settore di attività proprio della sfera professionale di quest’ultimo.
Il secondo parametro è finalizzato all’esame della potenzialità del comportamento del professionista di alterare in misura rilevante la libertà e la capacità del consumatore medio di adottare scelte economiche. Laddove si accerti il ricorrere di entrambi i criteri, la pratica commerciale è senza dubbio sleale.
Le pratiche commerciali scorrette possono essere ingannevoli, e a loro volta distinguersi sulla base della loro natura attiva (art. 21 cod. cons.) od omissiva (art. 22 cod. cons.), oppure aggressive (art. 24 cod. cons.). Invece, gli artt. 23 e 26, cod. cons., enucleano, rispettivamente, le pratiche che in ogni caso sono sempre qualificabili, e dunque sanzionabili dall’Autorità Antitrust, come ingannevoli e aggressive (le black list).
L’art. 21 cod. cons., stabilisce che una pratica commerciale, di carattere commissivo, è ingannevole quando contiene informazioni non rispondenti al vero o che, seppur di fatto corrette, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più elementi indicati alle lettere da a) a g) del comma 1 dell’art. 21, e che, in ogni caso, lo induca o sia in grado di far assumere allo stesso una decisione commerciale che in altre circostanze non avrebbe assunto.
Informazioni false o “ingannatrici”
Il giudizio di ingannevolezza della condotta attiva mediante la quale si integra la fattispecie della pratica ingannevole verte su due elementi: i) la falsità dell’informazione resa dal professionista, ovvero una falsità oggettiva frutto della “scorrettezza professionale”, la quale è inibita senza che sia necessario procedere ad ulteriori indagini che vertano sul profilo soggettivo della vicenda; e ii) la sua “capacità decettiva”, ossia l’attitudine insita nel tipo di informazione, nel suo contenuto, o legata al modo o agli strumenti impiegati perché giunga a determinati destinatari, a trarre in inganno il consumatore medio. La valutazione dell’ingannevolezza avrà esito positivo solo ove i due elementi sussistano contemporaneamente. Infatti un’informazione falsa, non veritiera, ma che al contempo non è idonea a fuorviare il consumatore mediamente accorto e diligente, è un’informazione legittima, che non degenera nella pratica commerciale ingannevole. Questa, invece, ricorre laddove l’informazione, pur veritiera e di fatto corretta, sia stata formulata in modo tale da essere idonea a far cadere in errore il destinatario del messaggio.
L’art. 21, comma 1, cod. cons., definisce le “azioni ingannevoli” come quelle pratiche che inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore medio riguardo a uno o più elementi, tra i quali ad esempio il prezzo, l’esistenza, la natura, i rischi del prodotto, gli impegni assunti dal professionista, e che in ogni caso lo inducono o sono idonee ad indurlo ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso[6]. Ai fini dell’individuazione di una pratica commerciale ingannevole non si deve accertare l’esistenza di un danno patrimoniale, ma è sufficiente che la pratica contenga informazioni non rispondenti al vero, o corrette, astrattamente idonee ad indurre in errore e far assumere decisioni che in altri contesti non sarebbero state adottate.
La scorrettezza della pratica commerciale prescinde dalla circostanza che il consumatore abbia subito una perdita patrimoniale (danno emergente), o un mancato guadagno (lucro cessante). Quel che rileva è la sua influenza sull’agire del consumatore, il condizionamento della sua libertà di valutare, scegliere e decidere, dal quale sia scaturita, o possa scaturire, quale conseguenza immediata e diretta, l’adozione di una decisione discordante con la sua condotta normalmente razionale, avveduta ed informata, nonché con lo scopo da egli perseguito e che era all’origine del suo rapporto con il professionista.
Ogni decisione commerciale è il risultato di un continuo bilanciamento tra agire o astenersi da un’azione in favore di un’altra, dove la regola generale è il corretto esplicarsi del libero autodeterminarsi del consumatore. Questo viene meno laddove si innesti nel bilanciamento degli interessi una pratica ex se idonea a falsare la valutazione e la scelta finale. Ed è evidente che nella libertà di autodeterminazione del consumatore, nelle sue valutazioni strumentali all’adozione di una scelta commerciale finale, i dati personali trattati dal professionista (e in particolare dal suo ufficio marketing e dai protocolli e algoritmi utilizzati dal suo sito web anche mediante tecniche di profilazione) giochino un ruolo decisivo.
I rischi per il consumatore
Ai sensi dell’art. 21, comma 1, cod. cons., l’ingannevolezza della pratica commerciale subentra laddove l’informazione non veritiera, o quella corretta, sia idonea ad ingannare il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi:
l’esistenza o la natura del prodotto;
le caratteristiche principali del prodotto (quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’assistenza post-vendita al consumatore, la provenienza geografica, la composizione, l’idoneità allo scopo o agli usi, ecc.);
la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto;
il prezzo, come calcolarlo, o l’esistenza di uno specifico vantaggio sul prezzo;
la necessità di manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione del prodotto;
le informazioni sulla natura, le qualifiche del professionista, sulla sua identità e sui suoi ausiliari;
i diritti del consumatore, tra i quali il diritto di sostituzione e rimborso previsti dall’art. 130 cod. cons.
Tra i criteri in relazione ai quali l’informazione resa dal professionista può essere idonea ad ingannare il consumatore medio, l’induzione in errore sull’“esistenza o la natura del prodotto” oppure sulle caratteristiche funzionali e strutturali del prodotto. Un primo insieme delle caratteristiche che concorrono alla realizzazione di azioni ingannevoli è costituito dalla “disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione e la composizione” del prodotto.
Tra le caratteristiche del prodotto vi sono i “rischi”, ovvero le conseguenze negative, nocive per la salute, la sicurezza personale del consumatore e della sua famiglia, o per l’integrità dei suoi beni, del suo patrimonio. Si tratta di fattispecie in cui l’etichetta, il foglio illustrativo del prodotto, la brochure pubblicata sul sito web, illustrano le proprietà benefiche e omettono, o sono poco puntuali, nelle indicazioni delle sostanze la cui assunzione determina disturbi fisici, l’insorgere di complicazioni fisiologiche, o in merito alle dosi e alla durata massima del trattamento oltre la quale è opportuno sospenderne l’uso o rivolgersi ad un medico. Si tratta di ipotesi frequenti in cui il consumatore, attratto dal risultato promesso diviene vulnerabile, in quanto riduce la sua normale vigilanza decisionale e trascura le regole di avvedutezza e prudenza.
Come nell’informativa privacy, l’indicazione dei diritti dell’interessato e le diverse finalità dei consensi devono essere chiaramente – anche sotto il profilo grafico/visivo – ben riconoscibili e distinguibili, così l’“assistenza post-vendita” ed il “trattamento dei reclami”, ovvero i diritti del consumatore, devono avere una collocazione chiara, precisa ed esauriente all’interno di ogni comunicazione commerciale, spot, catalogo illustrativo di beni o servizi.
Idoneità allo scopo del prodotto
Tra le caratteristiche del prodotto l’“idoneità allo scopo” è quella che, insieme alla promessa dei vantaggi, cattura e condiziona con maggiore incisività l’attenzione e la scelta finale dei destinatari del messaggio; o ancora l’“Origine geografica o commerciale” del bene. Su tali aspetti il consumatore, se non adeguatamente informato poiché non è un esperto del settore in cui opera la sua controparte, è maggiormente indifeso.
Infine, un’ultima caratteristica è quella dei “risultati che si possono attendere dall’uso” del prodotto. Attraverso i vari canali (social networks, email, gli invasivi pop-up durante la navigazione sul web) si susseguono incessantemente i messaggi, gli slogan e le promozioni di prodotti incentrati esclusivamente sulla promessa di risultati straordinari derivanti dall’uso di un certo bene. Promesse che spesso sono costruite facendo leva su una particolare vulnerabilità dell’Interessato Consumatore (il minore che poi condiziona il genitore, l’adolescente, la persona affetta da una patologia o da una situazione di disagio socio economico).
Cosa comporta la “condotta omissiva”
Il diritto dei consumatori a ricevere informazioni corrette, veritiere e chiare, sancito dall’art. 5, comma 3, cod. cons., assume un ruolo centrale in materia di pratiche commerciali ingannevoli al punto che le omissioni informative integrano un autonomo divieto di condotta ingannevole.
L’art. 22, cod. cons., riconosce come omissione ingannevole quella “pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in errore in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale consapevole che non avrebbe altrimenti preso” .
Il primo comma fissa i tratti costitutivi delle pratiche “omissive”: i) nell’omissione di una o più informazioni “rilevanti” e ii) nell’idoneità di tale omissione ad indurre il consumatore a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe adottato.
Dunque, non rileva qualunque omissione, bensì solo quella avente ad oggetto un dato esplicativo qualificabile come “rilevante” (ovvero quelle informazioni che permettono ad un consumatore medio di adottare scelte consapevoli) e, al contempo, deve sussistere un nesso di causalità tra tale “dimenticanza” e la determinazione negoziale del consumatore medio.
Il comma 3 dell’art. 22, cod. cons., completa la definizione di omissione ingannevole, disponendo che ai fini della rilevanza dell’omissione informativa si debba tener conto delle limitazioni “in termini di tempo e spazio” imposte dal mezzo di comunicazione impiegato per la pratica commerciale e delle misure, qualunque esse siano, adottate dal professionista “per rendere disponibili le informazioni ai consumatori con altri mezzi”.
Nell’espressione “mezzo di comunicazione” viene ricondotto qualunque strumento (o supporto) divulgativo impiegato dal professionista per realizzare o diffondere una pratica nelle fasi del primo contatto commerciale, pre-contrattuale, negoziale e post-contrattuale. Ricorre la condotta ingannevole prevista dal comma 3 anche qualora l’omissione informativa rinvii ad altre fonti d’informazione di non facile o immediata consultazione e ogni qual volta il rinvio ad altre fonti concerna indicazioni che attenuano l’appeal o riducono la convenienza della promessa oggetto del claim principale.
Pratiche commerciali aggressive
Le pratiche commerciali sono considerate “aggressive” quando “nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 24, Cod. consumo).
L’art. 25 Cod. Consumo individua una specifica black list delle pratiche commerciali considerate in ogni caso aggressive:
A: creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto;
B: effettuare visite presso l’abitazione del consumatore, ignorando gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi, fuorché nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell’esecuzione di un’obbligazione contrattuale;
C: effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza, fuorché nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell’esecuzione di un’obbligazione contrattuale,
D: imporre al consumatore che intenda presentare una richiesta di risarcimento del danno in virtù di una polizza di assicurazione di esibire documenti che non possono ragionevolmente essere considerati pertinenti per stabilire la fondatezza della richiesta, o omettere sistematicamente di rispondere alla relativa corrispondenza, al fine di dissuadere un consumatore dall’esercizio dei suoi diritti contrattuali;
E: salvo quanto previsto dal decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, e successive modificazioni, includere in un messaggio pubblicitario un’esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o convincano i genitori o altri adulti ad acquistare loro i prodotti reclamizzati;
F: esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, salvo quanto previsto dall’articolo 66-sexies, comma 2;
G: informare esplicitamente il consumatore che, se non acquista il prodotto o il servizio saranno in pericolo il lavoro o la sussistenza del professionista;
H: lasciare intendere, contrariamente al vero, che il consumatore abbia già vinto, vincerà o potrà vincere compiendo una determinata azione un premio o una vincita equivalente, mentre in effetti non esiste alcun premio né vincita equivalente.
L’aggressività della condotta è data dallo sfruttamento di una circostanza di fatto in cui il consumatore non è nel pieno delle sue facoltà di discernimento in relazione a offerte, messaggi, proposte legati alla fonte del suo stato di maggiore vulnerabilità. E la possibilità di realizzare una pratica commerciale aggressiva, e in particolare quelle delle lett. b), c), e), f) e g) dell’art. 25 Cod. Consumo – che fanno leva su aspetti relativi alla condizione lavorativa, economica, stato di salute o sui desiderata dei minori ecc. -, avviene proprio grazie allo “sfruttamento” di dati personali e sensibili del singolo consumatore e dei componenti il suo nucleo familiare, sfociando in condotte che incidono in modo più invasivo sull’autodeterminazione del singolo individuo, pressandolo emotivamente e psicologicamente sul piano affettivo, emotivo, sociale ed economico.
Il ruolo centrale dell’informazione
Per quanto sin qui esaminato, è lampante come la persona fisica che agisce come consumatore e che al contempo è interessato dal trattamento dei suoi dati personali abbia il diritto di ricevere da parte del professionista, il quale potrebbe agire come Titolare (art. 25 GDPR) o Contitolare (art. 26 GDPR) del trattamento nell’esercizio della sua attività commerciale, artigianale, imprenditoriale o professionale, un’informazione chiara, semplice, completa.
Da un lato l’art. 5, commi 2 e 3, del Codice del Consumo, stabilisce che “sicurezza, composizione e qualità dei prodotti e dei servizi costituiscono contenuto essenziale degli obblighi informativi” e che “le informazioni al consumatore, da chiunque provengano, devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore”.
E difatti, la struttura stessa della pratica commerciale scorretta si fonda su un’informazione idonea ad indurre in errore limitando la libertà di autodeterminazione. Dall’altro, il combinato disposto degli artt. 12, 13, 14 e 15 del Regolamento UE n. 2016/679 evidenzia il costante diritto dell’Interessato a ricevere un’informativa sul trattamento dei dati personali realizzato (o realizzati) dal Titolare del trattamento – autonomamente o mediante Responsabili e/o sub responsabili del trattamento – “in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, con un linguaggio semplice e chiaro, in particolare nel caso di informazioni destinate specificamente ai minori. Le informazioni sono fornite per iscritto o con altri mezzi, anche, se del caso, con mezzi elettronici. Se richiesto dall’interessato, le informazioni possono essere fornite oralmente, purché sia comprovata con altri mezzi l’identità dell’interessato”.
Come due sfere concentriche, dunque, il soggetto qualificabile come Titolare del trattamento di dati personali nell’ambito dell’esercizio di attività professionali, qualificabili come pratiche commerciali ai sensi del Codice del Consumo, deve garantire contemporaneamente un diritto all’informazione chiara, completa, corretta dal duplice volto.
Dati personali: veicolo e oggetto del commercio
Rileggendo le definizioni e gli esempi pratici delle condotte, attive e omissive, qualificabili “pratiche commerciali scorrette”, emerge come tali condotte si realizzano sempre più frequentemente attraverso il trattamento di dati personali che possono assumere un duplice ruolo: essere lo strumento, il “veicolo” attraverso cui costruire la pratica commerciale, strutturandola per renderla particolarmente interessante, appetibile per una determinata schiera di utenti, oppure essere l’oggetto stesso della pratica, in maniera il più delle volte velato, ovvero omesso nella privacy policy o nello slogan di invito all’acquisto formulato dal Titolare del trattamento (dunque condotta omissiva ingannevole).
Si pensi al caso dell’azienda che offre servizi di informazione e approfondimento on line, alla piattaforma social oppure alla società che conclude contratti a distanza con un sito di e-commerce: tutte fattispecie dove il professionista ufficialmente vende beni o servizi ma in realtà mediante l’iscrizione on line del consumatore Interessato acquisisce un insieme di dati personali e/o sensibili che, come riconosciuto nella recente sentenza del T.A.R. Lazio sez. I, 18 dicembre 2019/10 gennaio 2020, n. 261, hanno un autonomo e ben preciso valore economico che li rende a tutti gli effetti un bene di consumo oggetto di pratiche commerciali.
Ebbene, quei dati sono un ulteriore prezzo, un’ulteriore controprestazione che l’Interessato Consumatore accetta inconsapevolmente di, rispettivamente, cedere/eseguire in favore del professionista. Pertanto le condotte del Titolare del trattamento realizzate in violazione del dovere di informazione e di raccolta di un consenso informato, consapevole ed espresso dell’Interessato, ovvero un trattamento di dati personali illecito e in contrasto con il GDPR, possono integrare una pratica commerciale scorretta, ingannevole o aggressiva, ai sensi del Codice del Consumo.
Quanto valgono i dati personali: il caso Facebook
I dati personali, infatti, sono economicamente valutabili, sono parte del patrimonio del professionista Titolare del loro trattamento, divenendo una vera e propria banca dati da rivendere a soggetti terzi, ma anche una banca dati su cui costruire e sviluppare il know-how del Titolare progredendo nel mercato concorrenziale.
E difatti, nel caso affrontato dal T.A.R. Lazio nella pronuncia 261/2020[7], si afferma che “il valore economico dei dati dell’utente impone al professionista”, ovvero a Facebook, “di comunicare al consumatore che le informazioni ricavabili da tali dati saranno usate per finalità commerciali che vanno al di là della utilizzazione del social network: in assenza di adeguate informazioni, ovvero nel caso di affermazioni fuorvianti, la pratica posta in essere può quindi qualificarsi come ingannevole.
La prima condotta sanzionata presenta effettivamente tale carattere, in quanto il “claim” utilizzato da Facebook nella pagina di registrazione per invogliare gli utenti a iscriversi (“Iscriviti E’ gratis e lo sarà per sempre”) lasciava intendere l’assenza di una controprestazione richiesta al consumatore in cambio della fruizione del servizio. (…) La pratica è stata sanzionata in ragione della incompletezza delle informazioni fornite, che a fronte del “claim” di “gratuità” del servizio non consentivano al consumatore di comprendere che il professionista avrebbe poi utilizzato i dati dell’utente a fini remunerativi, perseguendo un intento commerciale”.
Se l’informazione non è chiara né “percepibile”
E ancora, secondo il Giudice Amministrativo l’Autorità Antitrust “nel provvedimento impugnato ha anche ampiamente confutato le tesi di parte ricorrente circa la completezza e chiarezza delle informazioni successivamente accessibili tramite link alla Normativa dati, alle Condizioni d’uso e Normativa Cookie, rilevando, alla stregua di un giudizio logicamente formulato, come le informazioni in questione non fossero né chiaramente né immediatamente percepibili.
Quanto al “banner cookie”, inserito successivamente all’avvio del procedimento, è stato legittimamente ritenuto dall’Autorità inidoneo a far venire meno l’omissione e l’ingannevolezza riscontrata, in quanto “oltre a non essere contestuale alla registrazione in FB, risulta generico oltreché scarsamente esplicativo e, laddove visualizzato in tale fase, nemmeno adiacente al pulsante di creazione dell’account”. Dunque, il giudizio di ingannevolezza della condotta formulato nel provvedimento impugnato si sottrae ai vizi denunciati, risultando corretta la valutazione della Autorità circa l’idoneità della pratica a trarre in inganno il consumatore e a impedire la formazione di una scelta consapevole, omettendo di informarlo del valore economico di cui la società beneficia in conseguenza della sua registrazione al “social network”.
Come precisato dalla sentenza in esame, “non sussiste, nel caso di specie, alcuna incompatibilità o antinomia tra le previsioni del Regolamento privacy e quelle in materia di protezione del consumatore, in quanto le stesse si pongono in termini di complementarietà, imponendo, in relazione ai rispettivi fini di tutela, obblighi informativi specifici, in un caso funzionali alla protezione del dato personale, inteso quale diritto fondamentale della personalità, e nell’altro alla corretta informazione da fornire al consumatore al fine di fargli assumere una scelta economica consapevole.
Per le medesime ragioni, non esiste neppure il paventato rischio di un effetto plurisanzionatorio della medesima condotta (intesa come identico fatto storico) posta in essere dal professionista che gestisce il social network. L’oggetto di indagine da parte delle competenti autorità riguarda, infatti, condotte differenti dell’operatore, afferenti nel primo caso al corretto trattamento del dato personale ai fini dell’utilizzo della piattaforma e nel secondo caso alla chiarezza e completezza dell’informazione circa lo sfruttamento del dato ai fini commerciali”[8].
Per i consumatori più “cultura dei dati”
Nell’era del mondo digitale, dove mai come in queste settimane segnate dalla pandemia del Covid-19 il singolo individuo deve lavorare, comunicare con i propri cari e concludere negozi giuridici per acquisti di beni di consumo rigorosamente “a distanza” (on line e via webcam), è anche in forza della cd. accountability, pilastro fondante l’intero assetto determinato dal GDPR, che il Titolare del trattamento, che al contempo è un professionista autore di pratiche commerciali, deve non solo mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che il trattamento è effettuato conformemente al GDPR, ma deve altresì operare nel mercato rivolgendosi agli Interessati Consumatori rispettando un imprescindibile obbligo di informazione sui dati personali trattati che rileva, a seconda delle finalità del trattamento, sia ai sensi del Regolamento Privacy, sia ai sensi del Codice del Consumo affinché la singola pratica commerciale non rilevi come ingannevole o aggressiva sfruttando eventuali stati di maggiore vulnerabilità del singolo individuo (integranti dati personali o sensibili).
La pronuncia del TAR Lazio offre l’ennesimo spunto per incentivare la diffusione di una maggiore “cultura” della tutela dei dati personali ma anche della tutela del consumatore, avendo essa il pregio di cristallizzare una verità ineluttabile: accanto alla tutela del dato personale quale espressione di un diritto della personalità dell’individuo – che in quanto tale è soggetto a specifiche forme di protezione, tra cui il diritto di revoca del consenso (art. 7, parag. 3 GDPR), di accesso, rettifica, oblio ovvero tutti i diritti dell’Interessato di cui agli artt. 15/21 Regolamento UE 2016/679 – sussiste una distinta sfera di protezione del dato stesso, inteso quale possibile oggetto di una compravendita tra gli operatori del mercato e/o tra questi e gli Interessati.
Per tale ragione è fondamentale far comprendere e radicare una maggiore consapevolezza dell’Interessato affinché, come per il consumatore medio, si possa parlare di un sistema di tutele predisposto dal Regolamento privacy e del Codice privacy italiano (D.lgs. n. 196/2003 adeguato al GDPR dal 19.09.2019) realmente accessibile (compreso e fruibile) all’Interessato “medio”.
La persona fisica alla quale i dati personali e sensibili e giudiziari si riferiscono deve essere adeguatamente sensibilizzata sugli strumenti a sua disposizione e sul valore economico dei dati che sempre più spesso sono merce di scambio, al punto da divenire una vera e propria valuta monetaria, come nel caso Facebook oggetto della citata sentenza del TAR Lazio e del recente notizia che ha visto la piattaforma Zoom vendere, omettendone l’indicazione nella propria informativa privacy, i dati personali – tra i quali immagini fotografiche dei propri utenti – a Facebook integrando dunque una pratica commerciale ingannevole ai sensi del Codice del Consumo italiano.
Note
Il provvedimento, inseritosi nell’ambito del piano di revisione dell’acquis comunitario del diritto dei consumi, aveva puntato all’armonizzazione massima delle legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali al fine di limitarne le divergenze di recepimento, ridurre gli ostacoli alla commercializzazione transfrontaliera di beni e servizi e rafforzare, così, la fiducia dei consumatori e delle imprese nel mercato interno.
Ovvero da “persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista” – art. 18, comma 1, lett. b) Codice del Consumo.
Definito come “qualsiasi contratto concluso tra il professionista e il consumatore nel quadro di un regime organizzato di vendita o di prestazione di servizi a distanza senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso” (art. 45, lett. g) Cod. Consumo) .
Ovvero “qualsiasi contratto tra il professionista e il consumatore: 1) concluso alla presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, in un luogo diverso dai locali del professionista; 2) per cui è stata fatta un’offerta da parte del consumatore, nelle stesse circostanze di cui al numero 1; 3) concluso nei locali del professionista o mediante qualsiasi mezzo di comunicazione a distanza immediatamente dopo che il consumatore è stato avvicinato personalmente e singolarmente in un luogo diverso dai locali del professionista, alla presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore; oppure; 4) concluso durante un viaggio promozionale organizzato dal professionista e avente lo scopo o l’effetto di promuovere e vendere beni o servizi al consumatore” (art. 45, lett. h) Cod. Consumo).
Il concetto di “consumatore medio” è tra i criteri fondamentali alla base della valutazione della scorrettezza di una pratica commerciale. Nato dall’attività della Corte di giustizia (Corte giust CE, 13 dicembre 1990, C-238/89; Corte giust. CE, 2 febbraio 1994, C-315/92; Corte giust. CE, 16 luglio 1998, C-210/96; Corte giust CE, 26 ottobre 1995, C-51/94), è stato poi elaborato dal legislatore comunitario, fino divenire il parametro sulla base del quale costruire, di volta in volta, il metro di paragone del consumatore di riferimento con cui raffrontare e valutare il comportamento del consumatore protagonista del caso concreto. Come recita la lettera del considerando n. 18 della direttiva «(…)la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto dei fattori sociali, culturali e linguistici (…). La nozione di consumatore medio non è statica. Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali, dovranno esercitare le loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la nozione tipica del consumatore medio nella fattispecie». Il criterio del consumatore di riferimento è stato poi modulato nell’eventualità che la pratica scorretta si rivolga specificatamente ad un gruppo particolare di destinatari, come ad esempio gli adolescenti, o le persone anziane, o comunque categorie di soggetti più vulnerabili (art. 20, comma 3, cod. cons.).
La disciplina dell’azione ingannevole introdotta dal d.lgs. 146/2007 nell’art. 21, comma 1, cod. cons., ha ripreso la ratio e la definizione di ingannevolezza poste alla base del d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, attuativo in Italia della normativa comunitaria contro i messaggi pubblicitari ingannevoli, che anche solo potenzialmente sono in grado di influenzare le scelte economiche dei loro destinatari.
In data 6 aprile 2018 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva avviato il procedimento istruttorio PS1112 nei confronti di Facebook Inc. e Facebook Ireland Limited in relazione a presunte pratiche commerciali scorrette in violazione degli articoli 20, 21, 22, 24 e 25 del d.lgs. n. 206/2005 (“Codice del Consumo”). L’AGCM, nello specifico, aveva ipotizzato l’esistenza di due distinte pratiche commerciali aventi ad oggetto la raccolta, lo scambio con terzi e l’utilizzo, a fini commerciali, dei dati dei propri utenti consumatori, incluse le informazioni sui loro interessi on line. La prima pratica, ritenuta “ingannevole”, consisteva nell’avere adottato, nella fase di prima registrazione dell’utente nella Piattaforma Facebook, un’informativa ritenuta dall’AGCM stessa priva di immediatezza, chiarezza e completezza, in riferimento alla attività di raccolta e utilizzo, a fini commerciali, dei dati degli utenti. La seconda pratica, qualificata come “aggressiva”, si concretizzava nella applicazione, in relazione agli utenti registrati sulla piattaforma, di un meccanismo che, secondo la ricostruzione dell’Autorità, comportava la trasmissione dei dati degli utenti dalla Piattaforma del social network ai siti “web/app” di terzi e viceversa, senza preventivo consenso espresso dell’interessato, per l’uso degli stessi a fini di profilazione e commerciali. Il procedimento si concludeva con il provvedimento n. 27432 del 29.11.2018 con il quale l’AGCM, conformemente al parere espresso dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) deliberava che: la prima pratica posta in essere da Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd. costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 21 e 22, del Codice del Consumo; la seconda, invece, era scorretta ai sensi degli artt. 24 e 25, del Codice del Consumo. Vietava quindi la continuazione di entrambe le pratiche e applicava ad entrambe le società, in solido, due distinte sanzioni amministrative in relazione alle due pratiche, ciascuna pari a € 5.000.000,00. Era, inoltre, imposta la pubblicazione, a loro cura e spese, di una dichiarazione rettificativa allegata al provvedimento, ai sensi dell’articolo 27, comma 8, del Codice del Consumo. Avverso il provvedimento sanzionatorio Facebook Inc aveva presentato ricorso al T.A.R. Lazio.
Cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato Sezione VI Sentenza 11 novembre 2019, n. 7699.